Posted 13 settembre 2013 in Occidenti with 0 Comments
di Alfredo Sasso
Un anno dopo. Un altro 11 settembre. festa nazionale della Catalogna. Che di nuovo, come nel 2012, ne approfitta per scendere in strada con bandiere e slogan che invocano l’indipendenza dalla Spagna. I numeri sono ancora imponenti. Di certo non meno di 500.000 persone. 1.600.000 secondo il governo catalano. Imponente è anche la forma della manifestazione. 400 chilometri di una catena umana che ha coperto l’intero asse nord-sud della Catalogna, da Le Pertus (frontiera francese) fino a Vinaros (regione valenciana). Una catena umana volutamente ispirata alla “Via baltica” che il 23 agosto 1989 riunì le capitali di Estonia, Lettonia e Lituania, quando circa 2 milioni di persone manifestarono per l’indipendenza dall’Unione Sovietica.
A promuovere la Catena è stata l’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), un’associazione a-partitica e trasversale. L’organizzazione dell’evento è frutto di un lavoro di mesi, compiuto da circa 30.000 volontari dell’ANC. Un sistema di iscrizioni che assegnava a ciascun partecipante un tratto della catena in cui presentarsi, talvolta lontano anche centinaia di chilometri dal proprio domicilio, pur di riempire l’intero percorso – cosa poi avvenuta -. È per questo che il successo della Catena catalana è innanzitutto organizzativo e logistico, oltre che político. Il nazionalismo catalano dimostra una notevole capacità di mobilitazione, animando un tipo di protesta affascinante ma insidioso. Il messaggio è netto, inequivocabile. Due sole parole, “consulta” (cioé referendum) e “independencia”. Il discorso dal palco della presidente dell’ANC Carme Forcadell spiccava per linearità e asciuttezza: nessun accenno ai temi canonici del dibattito pubblico come crisi, corruzione, tagli sociali, ricambio della classe politica.
Nessun referendum è contemplato nell’attuale ordinamento costituzionale spagnolo (figuriamoci uno di tipo secessionista), dunque questa soluzione richiederebbe una riforma, complessa e laboriosa nell’attuale quadro; oppure una soluzione unilaterale. Di modifiche costituzionali non vuole neanche sentire parlare il Partito Popolare (PP), al governo a Madrid con tanto di maggioranza assoluta in parlamento. Il Partito Socialista (PSOE) è ancora scosso dalla disfatta post-zapaterista e disunito da lotte interne, nicchiando con una ambigua e imprecisata posizione federale. Il catalanismo, invece, non si limita più a rivendicazioni parziali come il patto fiscale (la storica richiesta della borghesia catalana) e l’autonomia culturale-amministrativa. Si arriva persino ad invocare la “via kosovara”, cioè un processo unilaterale di autodeterminazione. Intanto, secondo i sondaggi, in Catalogna cresce il “sì” all’indipendenza (52%, secondo i dati recentemente pubblicati da El Pais, contro un 24% di contrari, un 16% di indecisi e un 7,7% di astenuti).
Le posizioni sono ormai polarizzate, indipendentismo contro unionismo. Posizioni intermedie, come il catalanismo non secessionista o il federalismo spagnolo, sono al momento inconsistenti. Un po’ perché proposte da soggetti oggi deboli e poco influenti (come, appunto, i socialisti). Ma soprattutto, perché proprio il fallimento di una soluzione intermedia è alla base di questa polarizzazione: lo Statuto di Autonomia catalano. Varato dal governo di Barcellona nel 2005, lo Statuto stabiliva l’autonomia amministrativa e culturale della Catalogna, secondo un modello federale. L’accordo politico per lo Statuto fu molto ampio, supportato da molte delle forze oggi pro-indipendenza, e confermato da un referendum popolare nel 2006. Ma il Partito popolare spagnolo, strenuo oppositore dello Statuto, fece ricorso presso il Tribunale Costituzionale spagnolo, che lo accolse. Il catalanismo vede quell’episodio come punto di non ritorno, come riprova che nessuna soluzione intermedia sia più fattibile di quella estrema.
Che dice Madrid?
Nell’ultimo anno, il governo spagnolo targato Partito Popolare ha trattato la questione catalana quasi con indifferenza, sperando che l’indipendentismo si logorasse ed esaurisse da solo. Ma con qualche accenno a forzare lo scontro, come nel caso della riforma dell’istruzione (proposta, poi rinviata) che avrebbe cancellato di fatto il trentennale modello di “immersione linguistica”, riducendo l’uso del catalano nella scuola pubblica. Per molti, si è trattato di un tentativo deliberato di colpire dalle fondamenta il modello socio-culturale catalano, da parte della destra spagnola. Condito dall’ormai celebre gaffe del ministro dell’istruzione Wert, che affermò l’obiettivo di “spagnolizzare i catalani”, frase dall’eco non troppo labilmente franchista. Non c’è dubbio che questa vicenda abbia dato linfa alla rivendicazione catalanista. La quale non si limita alla – pur rilevantissima – questione economico-fiscale (come molti italiani si ostinano ad affermare, un po’ offuscati dalla “sindrome padanista”, ossia di accomunare a prescindere qualunque movimento autonomista del mondo alla Lega Nord. Sindrome di cui ovviamente soffrono gli stessi leghisti, come ci ha ricordato oggi il suo ex-segretario).
Oggi, fare finta di nulla sembra sempre più complicato per Madrid. Il ministro degli esteri spagnolo José Maria Margallo ha riconosciuto che “La manifestazione è stata un successo” e che “bisogna capire le cause della disaffezione catalana verso la Spagna”: sono parole finora inedite per un esponente popolare, e che potrebbero segnalare un cambio di posizione, più propensa a cercare una via d’uscita all’ impasse. Già nei giorni precedenti alla Diada, trapelava la notizia di contatti segreti tra il presidente catalano Artur Mas e il premier spagnolo Rajoy. Potrebbero profilarsi soluzioni intermedie come la sostituzione del referendum con un allungo dei tempi, un’ “elezione plebiscitaria” anticipata del Parlamento catalano. Oppure una formulazione “light” del quesito referendario, diluito in più domande, così da evitare soluzioni di rottura.
Eppure, la Catena catalana chiedeva senza mezzi termini il referendum subito, entro l’autunno 2014, e con un quesito unico e chiaro, sulla secessione dalla Spagna. Vi sono due enormi opportunità di fondo, una politica e l’altra simbolico-emotiva. La prima: il 18 settembre 2014 si terrà il referendum per l’indipendenza scozzese, già concordato con Londra. Agganciarsi a quella circostanza (meglio se anticipandola, dato che in Scozia il no alla secessione è dato in vantaggio, secondo i sondaggi) offrirebbe una preziosa occasione per legittimare la causa dell’autodeterminazione catalana anche in ambito internazionale, e renderla digeribile anche in ambito europeo – Bruxelles, finora, è stata piuttosto fredda nei confronti dell’indipendentismo -. La seconda: l’11 settembre 2014 sarà il tricentenario della sconfitta catalana contro le truppe borboniche di Filippo V durante la guerra di successione spagnola, culminata con la caduta di Barcellona (motivo per cui l’11 settembre, la “Diada”, è la festa nazionale catalana, e per cui ieri la catena umana si è formata alle 17:14 precise).
La crisi della rappresentanza e dei vecchi partiti: dove fa breccia il nazionalismo
Come si diceva prima, è l’Assemblea Nazionale Catalana il vero vincitore della giornata di ieri, in una fase in cui le forme tradizionali di rappresentanza vacillano: se si votasse oggi in Spagna, i due partiti storici della democrazia post-franchista, PP (popolari) e PSOE (socialisti), registrerebbero i risultati più bassi della loro storia. In Catalogna, addirittura, sarebbero il quinto e sesto partito. Ma anche i partiti catalanisti non ridono, soprattutto Convergencia i Unió (CiU), la Democrazia Cristiana catalana, oggi al governo. Dopo una tradizione trentennale di posizioni regionaliste, virò l’anno scorso verso il secessionismo. CiU pensava di ottenere benefici tattici da questa svolta, ma ricevette una sonora batosta alle ultime elezioni. Dalla posizione di governo (dove CiU si trova ora da sola, con appoggio esterno di ERC, indipendentisti socialdemocratici) il tema dell’indipendenza fa un po’ comodo, perché permette di sviare l’attenzione dal vuoto esecutivo che si sta trascinando da più di un anno. Il governo catalano sta infatti alternando una (non)-politica di “stand-by” (quest’anno il Governo catalano non ha adottato la legge di bilancio, prorogando quella dell’anno scorso) alla più banale austerità, non certo diversa da quella di Madrid, con pesanti tagli alla spesa sociale e piani di privatizzazione della sanità. CiU continua a calare dei sondaggi, a beneficio degli indipendentisti “veri” di ERC, che sarebbero oggi il primo partito in Catalunya.
Indipendentismo, l’igiene della crisi?
Il nazionalismo catalano, come tutti i suoi – illustri o meno – predecessori, agisce sulle date e sui simboli proiettati in chiave (a-)storica. I riferimenti incessanti al 1714 e il parallelismo con la via baltica (che implica anche l’accostamento subliminale tra stato spagnolo e autoritarismo sovietico) serve, ovviamente, anche ad enfatizzare i sentimenti e la drammaticità dell’elemento nazionale. Il fardello emotivo della giornata è stato ovviamente rafforzato attraverso i media. TV3, la televisione pubblica catalana, ha dedicato alla manifestazione diverse ore di diretta. La partecipazione emotiva di conduttori ed inviati era molto intensa, come quella dei manifestanti. Riferendosi a una 17enne partecipante alla catena umana, il conduttore in visibilio ha affermato che “lei rappresenta la prima generazione che potrebbe vivere l’indipendenza”. Curioso anche notare che, nella prima serata dell’11, TV3 ha scelto di trasmettere il film “Fenix 11-23”, che racconta la storia reale – e surreale – di Eric Bertran. Nel 2004, quando Eric aveva 14 anni, inviò una mail anonima ad una catena di supermercati chiedendo di utilizzare la lingua catalana nell’etichettatura; pochi giorni dopo, una brigata speciale della polizia perquisì casa sua e gli notificò l’accusa di terrorismo. Insomma, roba che ecciterebbe sentimenti catalanisti a chiunque.
Tradizionalmente, il nazionalismo riesce a sovrapporre interessi divergenti, azzerare la percezione (ma non l’esistenza, ovviamente) delle diseguaglianze sociali. L’impiegato e lo studente, l’imprenditore e il precario, il democristiano e il movimentista, l’europeista e l’anti-troika. Tutto questo convive sotto l’ombrello del secessionismo catalano. Fino a quando resisterà questa sorta di implicito e silente “patto sociale” tra le diverse forze dell’indipendentismo? Nella Diada le sedi delle grandi imprese e dei supermercati sfoggiavano le bandiere catalane, così come le pubblicità sulle pagine dei giornali: perfino la Coca-Cola si è dipinta di strisce gialle e rosse, augurando Buona Diada a tutti. Ma tralasciando questo spiccio marketing identitario, quanto gioverebbe una Catalogna indipendente alla piccola e grande impresa? E quindi, fino a quando, e fino a che punto i gruppi di potere e la borghesia catalana (tradizionalmente vicini a CiU) appoggeranno la virata independentista?
Nella galassia catalanista brulicano ricerche e studi che si affannano a dimostrare viabilità e virtù di un’ipotetico stato indipendente (come la “Wilson initiative” di alcuni docenti universitari, qui in inglese). Eppure, da tempo corre voce che negli ambienti delle “patronal” catalane (equivalenti della nostra Confindustria), si celi una certa preoccupazione per la piega degli eventi. Spostandoci a sinistra: fino a quando si chiuderà un occhio sulle politiche di austerità e privatizzazioni gestite da Convergencia i Unió, e anche sui casi di corruzione che la riguardano, in nome della concordia nazionale? Recentemente le proteste sociali sembrano aver perso slancio, almeno a Barcellona. E non certo perché manchino di per sé i movimenti sociali (presenti e attivissimi sul territorio, a partire dalla galassia degli “indignados” 15-M) ma perché è calato l’ appoggio sociale e partecipazione, canalizzati dalla questione nazionale. La prova decisiva per l’indipendentismo sarà quindi mantenere la stessa unità e la capacità di mobilitarsi, anche quando dal governo centrale dovessero arrivare delle aperture. O anche quando la crisi economica (non) dovesse cambiare volto.
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