Octavia’s identity

Da Leliosimi @leliosimi

La notizia, qualche giorno fa, del licenziamento in tronco della giornalista Octavia Nasr da parte della Cnn a seguito di un messaggio (un giudizio positivo sull’Ayatollah sciita Mohammed Hussein) che la [ex] senior editor del colosso americano aveva postato sul proprio profilo di Twitter ha giustamente fatto il giro del mondo. Molte le questioni che l’episodio, anche in Rete, ha sollevato: la trasparenza, l’obiettività e l’equidistanza del giornalismo, il diritto o meno dei professionisti dell’informazione di esprimere pareri personali e le conseguenze per la loro credibilità e autorevolezza su un determinato argomento… il tutto amplificato e forse, ulteriormente distorto, dal fatto che tutta la faccenda si è consumata all’interno di uno scenario così complesso e ‘sensibile’ come quello della cronaca politica mediorientale (di cui la Nasr è considerata una delle massime esperte) con tutto quello che ne comporta. A niente sono valse scuse, rettifiche e precisazioni fatte successivamente anche sul blog personale della Nasr: la ‘leggerezza’ di un attimo, consumata nello spazio delle 140 battute di un tweet resta, per i detrattori dell’opinionista, una traccia indelebile e inappellabile che macchia la sua credibilità.

La Nasr è l’ultima di una lista di giornalisti e comunicatori americani ‘vittime’ di sviste o leggerezze compiute sul web e sui media sociali. Un elenco che proprio in questi ultime settimane si è ulteriormente allungato con il caso di di David Weigel che ha perso il posto di lavoro al Washington Post per un episodio simile (una frase contenuta in una e-mail inviata all’interno di un gruppo di discussione di Google).

I commenti, come era giusto che fosse, si sono concentrati, come detto, sul tema dell’etica professionale, su cosa significhi veramente essere trasparenti e sinceri. Personalmente l’episodio però mi ha fatto ricordare, anche se in un contesto diverso, quello che scriveva qualche mese fa Jeff Jarvis sul proprio blog a proposito Confusing *a* public with *the* public, in un recente update dello stesso post leggo:

What I publish can add up to my identity and with different publics I have different identities. So identity is a key component of our notions of publicness.

Ecco, mi sembra un altro ottimo spunto sul quale riflettere anche in merito ai fatti appena menzionati. I media sociali hanno introdotto una serie di variabili all’interno di quella che era una netta divisione tra sfera privata e quella pubblica. Almeno come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Una serie di sfumature che distinguono e graduano il modo con il quale comunichiamo idee, opinioni, impressioni personali a pubblici diversi in contesti diversi. Le diverse identità che comunicano con i follower, gli amici, i lettori dei blog, molto spesso con livelli di attenzione diversi su quello che viene scritto, le parole e gli aggettivi che vengono usati (è ovvio che la Nasr non avrebbe usato le stesse parole dello sfortunato ‘cinguettio’ su twitter in un suo servizio alla Cnn e probabilmente nemmeno nel post del suo blog). Ma l’idea però che possa esserci un pubblico/privato (o quasi privato) del quale possiamo avere il controllo – abbiamo visto – può creare grossi malintesi, quasi potessimo, sul Web, davvero parlare a ‘microfoni spenti’ controllando l’eco delle nostre dichiarazioni.

Ma «I ‘microfoni’ sono ormai aperti e per tutti. Leader, giornalisti, ministri e papi. – ci ricorda giustamente Vittorio Zambardino in un suo bel post a commento di un’altra frattura tra giornalista ed il suo editore, questa volta tutta italiana (quella tra Bordin e Pannella) – Questo dato continua ad essere trascurato nella coscienza pubblica. [...] le parole che emettiamo vengono “consumate” dagli altri al bivio fra la loro vita e l’incontro con noi, siamo azionisti di alcuni secondi della loro coscienza, dove però le nostre parole lavorano, oh se lavorano».

Sì decisamente, le parole lavorano sempre…

Taking the Me From Social Media (Mayhill Fowler sull’HuffPost)

Controversial exits of McChrystal and Weigel show downside of transparency (Howard Kurtz Washington Post)


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