di Salvatore Daniele. Le parole interrogano la realtà. Il bambino con i suoi genitori gioca ai ‘perché?’. ‘Perché?’ è la parola interrogativa per eccellenza. E’ quasi un compendio di tutte le domande. Chiede al mondo e alla vita la ragione della loro esistenza, del loro essere. Ma il bambino non vuole una risposta ultima, vuole solo continuare il gioco: come se fosse inconsciamente consapevole che non c’è una risposta ultima o, se c’è, si trova fuori dal mondo. La potenza interrogativa delle parole può dar luogo dunque ad una regressione funzionale all’infanzia, al tempo della vita quando le domande non cercano risposte oggettive, ma sono funzionali al gioco delle emozioni, dei sentimenti, dell’espressione di sé, dell’esserci nel mondo. D’altra parte, il gioco può essere molto sofisticato: scinde ciò che sembra unito, mette in dubbio ciò che appare sicuro, esalta quello che viene ritenuto vano, sminuisce quello che è creduto importante. In questa opera di ribaltamento, in una parola, mette il proprio ego al centro del mondo. Siamo nel dominio della lirica soggettivistica, un paradigma della letteratura.
L’atto fondante della tradizione della lirica soggettivistica occidentale è il libellum di Gaio Valerio Catullo. Al centro ideale del primo canzoniere sta la folgorazione di questo distico elegiaco:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Odio e pur amo. Come faccio, tu mi chiedi?
Non so, ma sento che accade (sono fatto così) e sto in croce.
“Odi et amo”: è un ossimoro o un endiadi? Denota un contrasto di sentimenti antitetici che coesistono o un unico sentimento complesso scomposto nelle sue componenti? “Et” potrebbe avere una funzione esplicativa: “odio proprio perché intensamente amo”? Quel che è certo: si tratta di una novitas, di un punto di partenza. Catullo ha scoperto – o inventato? – l’amore romantico, ambivalente, scisso, fenomeno emergente del tormento, dell’ intricato mistero dell’ Io. ( La gelosia per i tradimenti di Lesbia funge solo da causa scatenante: ma è la donna l’unico oggetto del suo sentimento?) Ed infatti l’interlocutore, la cui presenza è fort emente sottolineata dall’opposizione fra i tre verbi in prima persona (odi, amo, faciam) e requiris, seconda persona, in posizione di evidenza alla fine del verso – ma non è lo stesso poeta? – chiede, stupito, perché si comporti così, perché ami nonostante tutto, come (quare) faccia, qual è la ragione di questa dialettica nel suo animo. La risposta del poeta è tanto semplice quanto interlocutoria, aperta a secoli di sviluppi, approfondimenti, ricerche: si direbbe che sia un invito, una sfida a scrutare ciascuno il proprio animo e dare, se c’è, una risposta. “Non so , ma sento che accade”. Catullo non sa, ma sente ( novello Socrate, questo è il suo sapere): fieri significa ‘accadere’, ma anche, come passivo di facere, ‘essere fatto’. “Io sono fatto così!” dice il poeta co n la singolarità, l’egocentrismo di un fanciullo. Ma l’adulto aggiunge: excrucior, ‘soffro il supplizio della croce’. La crux è il supplizio dell’immobilità forzata e spasmodica e rappresenta qui l’impossibilità, l’incapacità, quasi l’inettitudine, a fuggire da una situazione che genera tormento. Essendo appunto inchiodato alla croce del proprio Io diviso.
Secoli dopo un altro poeta scriverà:
Pace non trovo, e non ho da far guerra;
e temo, e spero; et ardo, e son un ghiaccio;
e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.
(Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXXIV)
E questo poeta aveva letto Gaio Valerio Catullo.
Featured image, Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefano Bakalovich.
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