Per dare uno sguardo al futuro provate a pensare a un dipendente sfruttato che batte a macchina: “Io odio il mio lavoro. Io odio il mio lavoro. Io odio il mio lavoro”, ininterrottamente. Proprio di questo è accusato uno stenografo del tribunale di Manhattan (New York), licenziato due anni fa dopo aver compromesso almeno 30 sentenze, secondo quanto riporta il New York Post. Si è poi scoperto che molti dei trascritti dello stenografo della corte erano “del tutto incomprensibili” poiché soffriva – come ha poi ammesso – gli effetti dell’abuso di alcol. Un dettato in particolare ha incuriosito l’opinione pubblica, quello che continene la frase “Io odio il mio lavoro” ripetuta all’infinito. Al momento i funzionari del tribunale sono all’opera per riparare ai danni, e lo stenografo afferma di essere in riabilitazione. Ma varrebbe la pena chiedersi quanto tempo è occorso affinché ci si rendesse conto che quella persona non stava trascrivendo assolutamente nulla.
Nonostante tutto, non si riesce a fare a meno di sentire un brivido di gioia per una parte di questa storia. Ognuno di noi, a un certo momento della sua vita, ha sognato di poter fare la stessa cosa (ma non ha osato). Nel 2007, in un cupo ostello di Coventry, lessi Bartleby lo scrivano di Hermann Melville. La storia di un impiegato che si rifiuta gentilmente di fare tutto ciò per cui viene pagato, nello sconcerto del suo capo, e mi ritrovai a pensare: “È la più bella storia che abbia mai letto”. Infatti è un libro di cui si discute ancora. Chi non ha mai sentito il bisogno di dire al proprio capo: “Preferirei di no”, quando ci chiede di infilare quei documenti nella busta e poi correre all’ufficio postale?
Per qualche strana ragione, è ancora oggi tabù dire che la maggior parte dei lavori sono incredibilmente noiosi. Nel modulo di assunzione non si può certo scrivere: “Ragione per cui ho lasciato l’ultimo lavoro: lo odiavo” o anche “Motivo per cui vorrei questo lavoro: mi piacciono i soldi”. Il fatto che così tante persone abbiano condiviso questa storia senza esitare significa che molti di noi, sotto sotto, covano il sospetto che i nostri lavori non siano proprio ciò che vogliamo fare per il resto delle nostre vite. Molti di noi non sono sempre felici e soddisfatti al lavoro, molti di noi non sono sempre sono completamente produttivi.
Sognare di rivolgerci al nostro capo e dire: “Preferirei di no”, o di passare il pomeriggio a scrivere: “Io odio il mio lavoro. Io odio il mio lavoro. Io odio il mio lavoro” al computer, sembra davvero un gran bel modo di impiegare il proprio tempo. E inoltre, proprio come per lo stenografo di Manhattan, c’è una buona probabilità che gli altri non se ne accorgano nemmeno. In uno dei miei precedenti lavori, prima che entrassimo in cassa integrazione, l’ultimo giorno in ufficio il responsabile mise una pila di documenti sulla mia scrivania, dicendo di essere troppo impegnata per poter compilare le proprie fatture da sé. Senza ormai più nulla da perdere le ricordai che il suo ufficio aveva una parete di vetro dietro di lei, e che per tutta la durata del mio contratto a termine avevo potuto vedere come passasse buona parte del giorno giocando al solitario al pc.
Il monologo di Howard Beale nel film “Quinto Potere”, grottesco quanto catartico, tocca un nervo scoperto: c’è qualcosa di infinitamente appagante nell’immaginare di buttare per terra il computer, lanciare la sedia attraverso la finestra e dire ai colleghi che non hai mai sopportato ciò che pensi di loro. Ma invece no: ci teniamo tutto dentro, ci sfoghiamo al bancone del bar e stringiamo i denti. E poi, quando meno ce lo aspettiamo, riecco spuntare un altro Bartleby dei giorni nostri, a ricordarci quanto odiamo il nostro lavoro.
di Dawn Foster | The Guardian*
Traduzione: Michele Azzu
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(*) Tradotto e pubblicato con il consenso dell’autrice dell’articolo