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Office gardens

Da Lidiazitara @LidiaZitara

The Truman Show (1998)Marciapiedi di mattonelle di un colore indefinito tra il rosso ruggine e il rosa optalidon, asfalto perfettamente grigio, ruvido abbastanza da permettere un’ eccellente aderenza agli pneumatici, ma non troppo grezzo e sconnesso come nelle strade di periferia. Prati che non si possono chiamare prati, ma tappeti erbosi, perché tali sono: dei tappeti fatti d’erba, piatti, lisci, uniformi, di un verde di vernice fresca. Non una buca, non un mattone fuori posto, i bordi dell’erba tagliati a filo e le aiuole sempre impeccabilmente ordinate: immutabili. È Seahaven, il paradiso marino di The Truman Show.

Paesaggio urbano perfetto, troppo perfetto, fino al punto di implodere su se stesso.

Via via, ma lo sappiamo tutti che città così non esistono, che è solo un set di un film, che nessuno che sia sano di mente possa voler vivere realmente in un mondo così statico e fasullo quanto il bianco e nero di Plesantville. Non ci fa paura, semmai ci strappa qualche risata, qualche commentino tra un pezzetto di quattro stagioni e un sorso di coca cola.

the-truman-show1

Ma l’intenso senso di alienità generato dal set di The Truman Show lo si ritrova, quasi immutato se non nella sua complessità formale e visiva, in certi giardini contemporanei, celebrati dai critici, orgoglio delle amministrazioni e delle comunità. Sono in genere giardini di ricchi uffici, banche, imprese di assicurazioni, studi privati. Office gardens, si chiamano, perché se non hanno un nome inglese non hanno diritto di esistenza. A tal proposito credo che Platone parlasse inglese correntemente e che i suoi testi siano stati poi tradotti in greco antico.

hanging_gardens_2
Questi office gardens sono a dir poco strepitosi, sono luoghi di transito, e spesso di transito rapido, per cui è lecito sbizzarrirsi in soluzioni più che mai inusuali, in composizioni di materiali diversi, in ricercatezze di stile. Ogni progettista insegue la purezza lecorbusieriana o il polimorfismo minimal-zen sempre avendo come principio primo il controllo. Il controllo delle rotte dei dipendenti, dei pedoni, dei movimenti casuali (ma forse non poi tanto) dei ragazzini con lo skate, il controllo dell’acqua, della sabbia, del brecciolino, degli alberi.

Tu, pioppo, hai quella conca lì. E tu, altro pioppo, hai quell’altra conca là.

Conche esattamente identiche per alberi identici. Gli alberi non sono identici, penserete: nessun albero è identico a un altro. In questi giardini sì, perché se non lo sono, lo sembrano. Morto un pioppo se ne fa un altro.

L’erbetta non potrà mai debordare dal suo spazio perfettamente controllato e amministrato, l’acqua non uscirà mai dalla sua piscinetta realizzata con lo stesso materiale usato dalla NASA per gli scudi termici delle navette spaziali, le doghe in legno naturale hanno subito tali trattamenti artificiali che resisteranno fino a che Platone non resusciterà e tornerà a parlare in greco antico, e le pietre forse non sono neanche pietre, ma rocce aliene indistruttibili.

Progetti di giardini del tutto innovativi, ammirevoli per composizione e purezza di linee, per capacità creativa, per la gestione e il controllo degli spazi. Ma senza neanche il lontano sentore di quel profumo inafferrabile, magico e misterioso chiamato “bellezza”. Finti e artificiosi come il set di The Truman Show, anzi, di più, perché reali e non un’invenzione cinematografica.

Green-Office-Garden-Interior-Visualization-by-Stanislav-Orekhov-from-Rusia

Ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa. E per conseguenza logica, ogni persona al suo posto. Come per Truman, seguito dalle telecamere e obbligato a scelte inconsapevoli controllate da una regia spietata, entrando in questi giardini diventiamo oggetti anche noi, vettori, linee di percorso, numeri, massa, tutto e niente. Come Truman siamo obbligati a seguire un percorso che no, non ci viene imposto, ma solo suggerito. Un percorso che ci prega di non sostare troppo, di non sederci, di non osservare i nostri simili, di tenere la testa bassa e  lasciarci distrarre dal rumore dell’acqua che scorre, dalla formidabile eleganza delle linee e  dalla genialità dell’architetto.

Non sostare, non sedere, non parlare, cammina, cammina e basta, spostati, va’ ovunque vuoi, ma via di qui. Salta da quella beola all’altra, supera il prato, attraversa la passerella in legno, su, forza, come a Takeshi’s Castle. In un attimo sarai fuori e avrai vinto!

Un pioppo può essere sostituito ad un altro con facilità, nessuno se ne accorgerà mai. L’erba sarà sempre verde. Un impiegato perderà il posto e verrà sostituito con un altro identico, anche questo giacchettato e incravattato.

I ragazzini con lo skate, i vecchietti, le mamme col passeggino…sono tutti intercambiabili, bambole, modelli.

Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto: è un rendering, non un giardino, e noi siamo le ombre grigie in posa plastica a grandezza in scala.

office-garden-architectural-renderings-by-dbox-pict-13


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