Il cuore rimane con i suoi battiti, lo stordimento è nel cervello.
Qualcosa dentro nega l'evidenza, come un bisogno di buttare via qualcosa che fa male.
Più tardi ci si sveglia, di solito.
Fra le tante pagine scritte su Lucio Dalla ricopio questa da Diritto di Cronaca
Scritto da Redazione il 2 marzo 2012 in Cultura - di Virgilio Bartolucci
“Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò”, sarebbe bello iniziarlo così questo articolo, come se fosse qualcosa di più caldo e intimo di un freddo pezzo giornalistico, proprio come fosse una lettera ad un amico carissimo, che, lontano, non può sentire. Eppure c’è la cronaca da cui non si può prescindere.
Perché Lucio Dalla non ce l’ha fatta a vedere il suo 4 marzo – il giorno del suo 69 esimo compleanno, a cui aveva dedicato una delle sue canzoni più famose “4/3/1943” ( “dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare, parlava un’altra lingua, però, sapeva amare…” ) – Lucio Dalla è morto, stroncato da un infarto.
Il suo cuore ha smesso di battere lontano dalla sua Bologna, mentre si trovava in tour, a Montreux in Svizzera. C’è sempre qualcosa di profondamente ingiusto e di molto triste quando muore un cantautore, un musicista, un poeta, un artista. È ingiusto non poter ascoltare un altro capolavoro, non poter seguire con gli occhi della mente un’altra storia ed appropriarsene modellandola sulle pieghe della nostra vita.
Con Lucio Dalla se ne va una voce capace di toccare le corde dell’intimo e dell’emozione con una raffinatezza e uno stile inconfondibile. E’ difficile dire addio all’atmosfera della sua musica, a quei testi minimali, quelle piccole storie di vita radicate in una profondità a tratti impercettibile, leggera, vera. Perché la musica di Lucio Dalla è di tutti, come un monumento che siamo abituati ad avere sotto gli occhi e di cui per abitudine, a volte, ci sfugge la grandezza.
La sua morte è stata accolta da un fiume di dispiacere in cui scorrono in tanti: da Pupi Avati, a Vasco Rossi, da Jovanotti, a Morandi, agli Stadio, passando per la sua Bologna, fino a Celentano e a moltissimi altri. Mentre De Gregori sceglie il silenzio, come anche Ron, con cui Dalla ha avuto un legame fortissimo. Ed è per questo che in mezzo a tanti amici, a tanti che lo hanno conosciuto, a quanti lo vogliono raccontare, spiegare, con trasmissioni che lo incoronano, critici che ne analizzano le qualità artistiche, con Vespa che ricorda la sua fede e devozione per Giovanni Paolo II; tutti ci possiamo permettere, se non altro, di parlare di quel tesoro di emozioni che ci ha lasciato.
Ricordi di un vecchio Juke box di provincia, dal quale, con duecento lire potevi ascoltare, ancora sul finire degli anni ’80, “se fossi un Angelo” o la stessa “Caruso”.
Una canzone di Lucio Dalla ha qualcosa di immortale. Sfida il tempo, irride fatti e polemiche di una quotidianità amara che si rincorre e passa, per fissare un ricordo struggente, a tratti venato di un sentimento che lui non amava, La malinconia. E profonda è la nostalgia per quella figura di omino strambo, buffo, di cui a volte si percepiva la tristezza, ma che amava essere il giullare di sé stesso e sfidare il ridicolo, per lasciarlo, poi, in dono ai poveri di spirito.
Un vero artista bohemien. Il clochard di “Piazza Grande” che diventato ricchissimo, però, non è mai stato avido ed ha vissuto il suo successo restando sé stesso. Un uomo in grado di selezionare e prendere le distanze dai riflettori di un mondo fatto per lo più di presunte star e canzoni commerciali dimenticate dopo un mese. Un mondo abitato dall’onnipresenza da personaggi di chiara fama e di dubbio talento.
Non era questo Dalla. Ma un genio vero, puro. Che necessitava di una sua dimensione reale e insondabile da cui attingere a piene mani per regalare attimi di poesia.
Fuori dal palco teneva la scena in maniera ambivalente: introverso, a tratti schivo e impacciato, imbronciato se non si sentiva a suo agio, impossibile da piegare alla necessità della diretta; come pure, al contrario, un divertentissimo incantatore, un amabile interlocutore, addirittura, se messo nelle condizioni giuste, un istrionico mattatore.
Una persona con le sue debolezze: prima fra tutte la non accettazione del suo aspetto fisico, che aveva poi trasformato in un punto di forza. Un uomo che aveva conosciuto grandi sofferenze, anche per la sua omosessualità, mai nascosta, ma difficile da far accettare all’Italia moralista e perbenista dell’epopea democristiana. Difficoltà e sofferenze di esordi difficili che, pero’, non ne hanno mai fatto un professionista dal lamento e la lacrima facile.
Un anticonformista assoluto, un artista di una grandezza che, forse, ancora oggi, dopo aver superato i confini nazionali, non è stata compresa del tutto e che ritroviamo nei suoi testi.
Parole ricercate, dolci come il miele, a volte ironiche e giocose, altre, sferzanti e senza appello. Mai ideologiche, sempre legate ad un vissuto, sempre evocative di qualcosa d’altro e di più rispetto al significato letterale. Un senso ultimo quasi metafisico e per questo, paradossalmente, popolare.
Difficile riassumere le tappe di una carriera lunga quasi 50 anni. Divisa tra periodo beat degli inizi e l’incontro con la poesia di Roversi. Il successo dei ’70 – ’80. Con lo storico tour, “Banana Republic”, assieme a Francesco De Gregori, nel 1979; e il successo di “Caruso”, del 1986, che secondo molti segna lo spartiacque della sua carriera. Da quel momento Dalla cambia registro e secondo molti non in meglio, peggiorando nella qualità dei testi e inaugurando una fase di leggerezza estrema e contaminazioni di livello più basso rispetto alla produzione precedente.
Dalla, in realtà, si dirige verso una sperimentazione continua, che lo porterà ad abbracciare anche la musica classica. Sempre più alla ricerca di una libertà che gli altri bollano come declino, forse, solo perché ai miti non è concesso di cambiare.
È stato un eccellente scopritore di talenti e, fino all’ultimo – lo scorso San Remo -un padre artistico senza eguali. A lui in tanti devono troppo: Luca Carboni, Ron, gli Stadio, Paolo Belli, Samuele Bersani, solo per ricordarne alcuni. Giovani artisti su cui non avrebbe scommesso nessuno. Nessuno tranne Lucio Dalla, che forse in quei giovani ha rivisto sé stesso e le stesse difficoltà degli esordi. Senza parlare dei grandi che ha aiutato a riemergere. Primo fra tutti proprio il De Gregori di “Banana Republic”, che dopo il processo “proletario”, subito in un drammatico concerto, non voleva più esibirsi. Un artista ferito e impaurito, ma che con Dalla torna a vivere. Per non parlare di Gianni Morandi, col quale Dalla si sdebiterà per l’aiuto ricevuto tanti anni prima, quando il “ragazzo che amava i Beatles e i Rollin’Stones” era all’apice della carriera e Dalla era visto come un brutto anatroccolo. Anni dopo, a parti invertite, Dalla riuscirà a far risorgere Morandi caduto nella spirale dell’oblio, donandogli una luce nuova.
Uomo senza eta’, Lucio Dalla, inguaribile giullare e artista difficile da racchiudere in una definizione, in uno schema, assolutamente un purosangue. Musicista vero, persona coltissima, amato e corteggiato dai potenti, da Agnelli, a Berlinguer, da Craxi, a Berlusconi, con cui lui – da sempre del PCI -, certo, non condivideva il credo politico.
E pur conoscendo e frequentando i potenti, allo stesso tempo, non ha mai smesso di unire i piani, di vivere tra la gente. Non si è mai negato al pubblico, né all’abbraccio di un ammiratore per la strada. Un artista di fama internazionale, che, in segreto, andava a incontrare i bimbi down per passare con loro la giornata.
Una figura che ha attraversato il bello e il brutto della musica leggera italiana. Dalla che non ha mai amato San Remo. Era lui il vicino di stanza la notte che Tenco decise di farla finita e il giorno dopo non voleva salire sul palco. Doveva cantare il brano dal titolo “bisogna saper perdere”, una tragica coincidenza.
Un uomo senza famiglia, la cui solitudine si poteva solo intuire, nonostante i tanti amici e il grande amore per gli artisti. Perché Dalla era capace di prendere un gruppo di musicisti per strada e di farli suonare in concerto con lui.
Vero bohémien, visse veramente come il clochard di “Piazza Grande”, o come quelli più negativi di “com’e’ profondo il mare”, consapevoli di essere lo specchio di quello che non va: “ci nascondiamo di notte. Per paura degli automobilisti, degli inotipisti, siamo i gatti neri, siamo i pessimisti, siamo i cattivi pensieri e non abbiamo da mangiare. Una visione, quella degli ultimi, che spesso è presente nei suoi testi. Un musicista che traeva la scintilla artistica improvvisamente, da quel qualcosa in più che nessuno sa come nasca e che l’epistemologia chiama contesto della scoperta, tanto per dare un nome all'inspiegabile.
Dalla era ispirazione pura. Quel capolavoro che è “Caruso”, probabilmente, la canzone italiana piu’ tradotta e cantata di sempre, la scrive a Sorrento, nell’albergo dove lo stesso Caruso soggiorno’ poco prima di morire. La barca su cui stava viaggiando Dalla ha un guasto, portato a riva, gli venne data la stanza del compositore. E lì, di fronte a quel panorama, il cantautore ha saputo trasporre in musica e poesia l’emozione provata immaginando il dolore di un emigrante, che doveva lasciare la meraviglia della sua terra per un viaggio di speranza a bordo di un bastimento in procinto di salpare per l’America.
Un artista capace di suonare con Chet Baker e Arbore, con Pavarotti e Gigi D’Alessio, con Morandi e De Gregori, con Ron e gli Stadio solo per dirne alcuni. Sempre propositivo e collaborativo, mai geloso, mai chiuso in difesa del suo successo. Grande di una grandezza senza invidia, che sa donare.
Lucio Dalla se n’è andato lasciando una serie di canzoni, che, a ricordarne solo alcune, si ha l’impressione di fare torto alle altre. Ma come dimenticare l’affresco di due giovani innamorati, come “Anna e Marco”, o la grazia della danza contrapposta a violenza e volgarità di “Balla balla ballerino”. Oppure, la surreale prostituta di “Disperato Erotico Stomp”. Il discorso con Dio di “Se io fossi un angelo”.
Se ne e’ andato in silenzio, Lucio Dalla, senza clamore, come recita la frase finale de “L’anno che verrà”: “e senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi, o i cretini d’ogni età”.
Grazie di tutto