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Oggi parliamo con… Danilo Angioletti

Da Gialloecucina

Diamo oggi il benvenuto a Danilo Angioletti, autore di un romanzo che, a prescindere da i gusti personali, colpisce sicuramente per la sua originalità. Per approfondimenti in merito, visitate questo sito :

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L’intervista proposta contiene persino un’errore in una domanda ma invece di correggerla ho preferito lasciare il testo integrale perchè la risposta di Danilo è stata troppo forte!

Andiamo ora a parlare direttamente con l’Autore per sapere qualcosa in più su di lui!

 

Intervista a Danilo Angioletti a cura di Elio Freda

Benvenuto Danilo su Giallo&Cucina. Cosa ti offro, un caffè? Un aperitivo?

Un aperitivo va benissimo. Un negroni, grazie. Definitivo. Come Agata, del resto.

Come di consueto, preghiamo di presentarti al pubblico. Chi è e perché scrive Danilo Angioletti?

Per come è posta la domanda mi permetto di rispondere in terza persona. Danilo Angioletti è un ingegnere penitente. E renitente. Attratto dalle scienze esatte ma costretto nei limiti e nella quotidianità di un lavoro in quel campo. Mancano i colori, la musica, la fantasia. Allora l’Angioletti (che poi sono io) suona da sempre. E scrive, si immagina personaggi ai margini, perché si sente a suo agio in quella terra di confine. Scrive perché la confusione può essere dipanata frase dopo frase, come tirando il filo di un gomitolo.

Quando e come è nata la tua passione per la lettura? Qual’è il tuo rapporto con la cucina?

La mia passione per la lettura (torno me stesso in prima persona) è iniziata con “I demoni” di Dostoevskij, ricevuto in regalo a sedici anni. Non sapevo neppure come pronunciare il nome dell’autore (ricordo che dissi: “Ah, grazie, Dostoschi!”, me ne vergogno ancora oggi) e non capii nulla del testo. Ma il mondo che descriveva era perfetto per i particolari, le scene vivide, i personaggi così veri e chiari. La mia caparbietà mi spinse ad applicarmi, a leggere il più possibile.  Volevo poter godere a pieno di certe letture. Parlando di cucina, invece, purtroppo cucino raramente, ma non perché non mi piaccia. Per l’esatto opposto: lo faccio con grande gioia quando ho il tempo di fare le cose per bene, tagliuzzando la cipolla fino a renderla poltiglia, cercando gli ingredienti e preparandoli sul banco come un esercito schierato.

“Vitamorte Vitamore”. Com’è nata l’idea?

In realtà è “Vitamore vitamorte”, non so se vale la proprietà commutativa. L’idea in sé è nata dal protagonista. Spesso mi capita di avere i personaggi ma non ancora la storia. Ernesto era lì da un po’, seduto in sala d’attesa. Diciamo che mi piaceva molto l’idea di poter creare un’ atmosfere nostalgica e sospesa, creando dialoghi un po’ estremi. Far parlare persone anziane e far pesare il divario generazionale dando una specie di valore numerico alle vite vissute. Vedere come questo valore possa cambiare nelle generazioni. Poi ci ho preso gusto, e ci ho fatto confluire tutti i pensieri su morte, funerali, cimiteri. E molta altra roba, in realtà.

Ernesto e Agata : ti sei ispirato a qualche persona reale o è frutto della tua fantasia?

Oh, come è difficile rispondere a questa domanda. Io uscivo da un periodo gravoso, e posso dire di aver trasferito ad Ernesto quello che gli accade come rinascita. Che per me è stato l’incontro con la donna che mi ha ispirato Agata. Alcuni dialoghi, che trovo estremamente poetici, sono avvenuti davvero. Noi parlavamo di cose così, di Prometeo incatenato, di pentole d’oro alla base dell’arcobaleno, del sangue degli animali sgozzati riversato nella terra.

Hai dichiarato che Vitamore Vitamorte è un testo che parla principalmente di amore. Possiamo approfondire un po’ questo aspetto?

L’amore come interruttore, o meglio come deviatore (come da schema elettrico), che può mandare la vita verso il vuoto o il pieno. Verso la vita o la non vita. La vita o, per estensione, la morte. Una morte quotidiana, magari rassicurante e amica, ma pur sempre una morte. Si può passare la vita ad aver paura, a ritrarsi, a stare nel proprio cantuccio, oppure si può osare, si può donarsi completamente. Si può amare. la storia di Ernesto e Agata è l’archetipo della storia d’amore.

Esiste una colonna sonora che fa da sfondo alla tua attività di scrittore?

Di sicuro me ne vengono in mente due: Le “Suite per violoncello solo” di Bach e “In rainbow” dei Radiohead. Che non c’entrano l’una con l’altra ma entrambe mi dispongono nella migliore condizione.

Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nella stesura della romanzo?

È buffo, ma solitamente il finale di un romanzo lo scrivo circa a metà stesura. L’ho in mente già da tempo. Per “Vitamore vitamorte” non è andata diversamente, solo che la storia d’amore, la vicenda padre-figlio, la malattia, tutto si era spinto tanto in profondità che non sapevo davvero più come far tornare quel finale. Questa è stata la difficoltà: giustificare il finale più o meno già scritto.

Alla fine della mia recensione, ho scritto che non saprei se consigliare o meno il tuo romanzo, forse perchè bisognerebbe conoscere molto bene i gusti di chi si ha di fronte prima di sbilanciarsi. Il mio suggerimento era comunque di osare. Tu a chi e perché consiglieresti la lettura del tuo libro?

A tutti coloro che non leggono per puro intrattenimento. A chi ha voglia di andare al di là di una storia, e vuole vedere cosa c’è nel buio. Credo che ci siano tante questioni che possano fare riflettere. I libri, più che dare risposte, pongono domande. Che è il loro modo di dare risposte. Almeno, questo è ciò che io cerco nei libri, e credo che in questo romanzo vi sia molto materiale umano.

 Cosa puoi raccontarci a proposito della tua esperienza editoriale?

Un calvario. Quattro romanzi, quattro editori. Ogni volta si ricomincia da capo, mandando manoscritti e speranze, e aspettando risposte per mesi. Ad esempio, questo romanzo è in giro da due anni circa. È un ambiente estremamente difficile a causa della saturazione. E davvero gli italiani non leggono, a volte neppure chi scrive legge. Io poi, facendo narrativa d’introspezione, davvero vedo pochi sbocchi. Di più bistrattata c’è solo la poesia. E forse i racconti. Ma con GoWare (e Thèsis) ho trovato molta professionalità. Per dire, con Marco Rosati (che continuo a ringraziare) abbiamo a lungo disquisito se fosse meglio “ce ne si dimentica…” o “ci se ne dimentica…”. Non so se mi spiego…

Che tipo di lettore sei? Ci sono degli autori ai quali ti ispiri o che rappresentano per te un modello di riferimento?

Sono stato un lettore onnivoro. Adesso scelgo molto accuratamente. A volte abbandono libri a metà (è un mio diritto come diceva Pennac). Ho adorato i sudamericani (Jorge Amado e Guimaraes Rosa), ai quali devo la sensualità e il gusto per il surreale, poi ho scoperto Saramago e non l’ho più mollato. Lui è un grande modello di riferimento, per quanto inarrivabile. David Foster Wallace è il mio modello (altrettanto inarrivabile) per i dialoghi. Victor Hugo è l’esempio da seguire  per la perfezione della parola. C’è sempre quella giusta al posto giusto. Una specie di vocabolario applicato. Ho letto molto i russi (dopo l’esperienza Dostoevskij). Tra gli italiani attuali Sebastiano Vassalli e Maurizio Maggiani mi hanno colpito molto. Ma anche Tiziano Scarpa, Tullio Avoledo  e Marcello Fois. Tutti molto bravi.  Piero Chiara rimane un punto di riferimento per la provincialità dei personaggi e l’intreccio delle storie comuni. Oltre che per  prossimità geografica. Poi leggo i classici che ho tralasciato in passato. Insomma, sono ancora onnivoro ma molto attento alla qualità. Non leggo letteratura di genere, solitamente, sebbene abbia avuto una certa passione per Philip K. Dick.

Hai altri progetti letterari in cantiere?

Sempre. Ho ultimato lo spin-off di “Vitamore vitamorte”, incentrato sulla figura di Tarcisio, il custode del cimitero, che si rivela come personaggio bieco, e  a cui ci sommano altri personaggi altrettanto caratterizzati. È una storia completamente diversa, l’ho scritta come defaticamento dopo “Vitamore vitamorte”. Niente introspezione. Però c’è una certa suspense, del mistero, una trama intrecciata e divertente. Ci vedrei bene un film, sinceramente. Poi c’è il un nuovo romanzo. Storia di due donne anziane, vedove, che scoprono di avere ancora vita da prendere. E da dare.

A tua scelta: lasciaci con una citazione o con una ricetta!

Una citazione adeguata (che si trova nel romanzo). “L’amore è la vita, quando non è la morte” – V. Hugo

E una ricetta: il pesce in padella (applicabile a tutti i tipi di pesce sfilettato): in una ampia padella di cui si dispone del coperchio (ricordarsi sempre del diavolo) versare un filo d’olio, sdraiarci sopra il pesce, salare e aggiungere spezie a piacere (io uso solo il pepe, ma liberissimi di personalizzarla), coprire il tutto, abbassare la fiamma. Attendere dieci o quindici minuti a seconda dello spessore. Et voilà, una cottura tipo vapore, leggera e sana. Aggiungere prezzemolo se gradito.



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