Magazine Cucina

Oggi parliamo con… Lucio Sandon

Da Gialloecucina

Intervista a cura di Stefania Ghelfi Tani

Lucio Sandon è medico veterinario e opera a Napoli, anche se il cognome ne tradisce l’origine veneta. Mi fa piacere intervistarlo per Giallo e Cucina: non ne fa grande pubblicità perché è assai schivo, ma i proventi de” Il libro del bestiario veterinario” saranno integralmente destinati all’Ospedale Universitario Pediatrico Meyer di Firenze, in particolar modo alla ricerca finalizzata alla Pet Therapy.

Correte a comprarlo!

Buongiorno Lucio e grazie per averci concesso un po’ del tuo tempo! Raccontaci di te. I lettori sono curiosi di sapere chi sei e quando è nato il tuo amore per la scrittura, di conoscere l’uomo dietro lo scrittore.  Dove scrivi? Hai un posto preferito dove trovi ispirazione?

 Non ho grosse esigenze, scrivo dove capita: mi basta avere una tastiera e un po’ di silenzio. Proprio per questo motivo però, il luogo che preferisco è la mia casa in montagna, sull’appennino molisano.

Come nascono le tue storie, quanto rubi alla fantasia e quanto c’è di autobiografico?

 Le storie che ho raccontato nei primi libri, sono il frutto di oltre trent’anni di militanza in prima linea in un luogo fantastico come la provincia vesuviana… Certo un po’ di fantasia ci vuole: a volte i ricordi possono risultare lievemente sbiaditi.

“Animal Garden”, “Vesuvio Felix” e “Il Libro del bestiario veterinario” sono racconti basati su fatti reali, presi dalla vita di tutti i giorni, storie legate al tuo lavoro di veterinario, alla tua terra d’adozione mentre con Il trentottesimo elefante ci presenti una storia molto particolare, un viaggio temporale non facile. Da dove nasce, come mai questa scelta?

L’idea del Trentottesimo Elefante è nata nel corso di una lunga passeggiata tra le rive di un lago di montagna e degli scavi archeologici, ai più sconosciuti, dove fra le pietre spiccava la sagoma di una roccia nera a forma di elefante, con proboscide, orecchie e tutto. Poi la trama è scaturita durante una cena tra amici, dove ci si confrontava sulle sconfitte che hanno sempre dovuto subire gli esseri umani quando hanno tentato di combattere contro i loro dei.

Stili solitamente una scaletta o ti fai condurre dalla narrazione?

 Assolutamente costruisco prima una semplice impalcatura con la trama generale, alla quale vengono aggiunte delle storie secondarie… E poi, via con la fantasia!

 Quali sono state le maggiori difficoltà nella stesura di questo romanzo?

 Il Trentottesimo Elefante è una storia molto complessa: ci sono cinque racconti con protagonisti diversi, in diverse scansioni temporali. Si parte da Annibale che va alla conquista della più grande potenza del mondo, poi c’è la storia del protagonista, Angelo che ai nostri giorni trova uno strano oggetto nel suo bagno. C’è la narrazione del viaggio verso l’Italia fatta in prima persona dal dodicenne Amilcare, il figlio di Annibale, e la storia del figlio di Angelo, medico in Afghanistan al seguito della missione militare italiana. Infine c’è un delitto perpetrato da un gruppo di amici, trent’anni orsono. Tutte queste storie partono autonomamente, per poi confluire fra di loro e ridursi ad una sola: un lavoro abbastanza complesso, ma mi ci sono divertito.

Tre buoni motivi per leggerlo?

 Perché è il primo thriller ambientato sui monti delle Mainarde, e quindi si viene a sfatare la diceria che il Molise non esiste. Per scoprire il vero motivo che convinse Annibale ad attraversare le Alpi e sconfiggere la potenza di Roma. Perché è un intreccio di storie d’amore: tra padri e figli, tra uomini e donne, tra bambini e animali…

C’è molta Napoli nelle tue storie?

 Un po’. Ma c’è anche la Puglia, la Sardegna, il Molise, l’Africa…

Ami avere musica di sottofondo? E se sì quale genere ami?

 In verità non gradisco musica in sottofondo, preferisco il silenzio: credo che ai giorni nostri la musica dovrebbe venire maggiormente rispettata come forma d’arte da ascoltare con la concentrazione che merita, e non sprecata sparacchiandola senza senso, come avviene nei centri commerciali. Amo ascoltare musica classica, in particolare Mozart e Bach, dedicandovi tutta l’attenzione.

 Come lettore quali libri acquisti, cosa ami leggere? E se devi regalare un libro come lo scegli?

 Compro libri d’avventura, gialli italiani e in particolare di autori napoletani (ho tutta l’opera di De Giovanni), e poi libri di viaggi. Se devo regalare un libro vado prima a leggermi un po’ di recensioni, e scelgo quelli che mi sembrano possano essere graditi a chi li deve ricevere.

Un autore che ami particolarmente e perché?

 Oltra a Maurizio De Giovanni? Giacomo Leopardi: ogni parola che ha scritto è un’emozione pura, un solco scavato nel mio cuore.

Prossimi progetti letterari?

 Ho appena terminato di scrivere un romanzo: un thriller ambientato nella Napoli del ‘700 durante il regno di Carlo III di Borbone, ma che ha sua origine con il sacco di Roma, compiuto dai Goti di Alarico nel 410 d.c., e finisce poi con lo svelare il mistero delle macchine anatomiche di Raimondo di Sangro, conservate nella Cappella di Sansevero. Da poche settimane poi, ho iniziato un “noir” il cui protagonista è un bambino di 13 anni, che la mattina del 5 marzo 1861, vede da lontano l’assassinio di tutta la sua famiglia ad opera di un commando inglese al seguito di Garibaldi durante la conquista del regno delle due Sicilie.

Ami presentare i tuoi romanzi in pubblico? Quale è la domanda che ti ha messo in difficoltà e quale quella che più ti è piaciuta? Una che non ti hanno ancora fatto?

Mi diverto a fare le presentazioni, ma un’ora prima di iniziare, vorrei sempre fuggire via: ho una profonda paura di fare brutta figura. Se potessi poi, eviterei assolutamente la fase delle domande, ho notato infatti che la gente tende a vedere nei miei libri cose delle quali non ho nemmeno mai immaginato l’esistenza, e spesso rimango spiazzato… Se potessi, preferirei non rispondere, e appellarmi al quinto emendamento della costituzione americana (quello per cui una persona può rifiutarsi di rispondere al suo giudice, se la testimonianza potrebbe incriminarlo).

Un consiglio a chi ha il suo romanzo ancora chiuso nel cassetto?

Tirate fuori il coraggio, e speditelo a tutti gli editori!

Grazie per la bella chiacchierata. Ora, come tradizione di Giallo e Cucina ti chiediamo di salutarci con una citazione ed una ricetta di cucina che ami!

Grazie a Voi: vi regalo un piccolo racconto tratto da Vesuvio Felix.

Buon appetito!

“Il dottor Gardenia aveva sempre saputo di non essere l’unico figlio della nebbiosa pianura veneta ad essere atterrato a guisa di astronave aliena, sul mare verde delle pinete alle falde del Vesuvio, ed esservi rimasto imprigionato per sempre.

Molto, ma molto prima di lui, un altro veneto molto, ma molto più illustre di lui, aveva soggiornato a lungo in zona, impiantandovi una notevole attività industriale come per tradizione dei suoi conterranei.

Il marchese Antonio Canova prima di regalare a Napoli quelli che sarebbero diventati un giorno i nuovi simboli della città, nacque nella bassa trevigiana nel giorno dei morti del 1757. Ben presto le gelide brume che ristagnano tra il Brenta ed il Piave cominciarono a provocargli dei fastidi per cui decise di trasferirsi al sud. Scelse la bellezza imponente di Roma come base per la produzione dei suoi capolavori, ma per svariati anni visse e lavorò anche all’ombra del vulcano, dove esisteva una solida tradizione nella lavorazione del bronzo. Il re Borbone Ferdinando Primo gli aveva infatti commissionato le due grandi statue equestri che avrebbero dovuto completare lo splendore della enorme piazza semicircolare antistante la reggia di Napoli: la sua, in posa plastica ed eroica e quella del suo grande genitore, Carlo III in atteggiamento da imperatore romano. Antonio aveva il suo bravo fabbro di fiducia, il quale però era di Roma, e per fondere le due statue aveva bisogno di un’officina sul posto, fu così che il valente artigiano andò in giro in quella che era la zona industriale della capitale del regno delle due Sicilie e trovò’ una struttura che gli conveniva, un grosso capannone nei pressi di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.

Come ben si sa, la messa in opera di un’officina meccanica per la produzione di bronzi, non è cosa che può passare inosservata: l’impianto della fumosa fabbrica diede subito sui nervi a Francesco d’Aquino principe di Caramanico, il facoltoso proprietario della villa vicina, il quale aveva in estremo disgusto i fumi provenienti dalla fonderia.

Bè, vicina per modo di dire: prima di giungere alle sfarzose terrazze di villa Vannucchi, le esalazioni che irritavano le nobili narici attraversavano un bosco di querce, lecci, magnolie, cedri, mimose e albicocchi, grande quasi come quello che circondava la tenuta del suo sovrano, nella confinante città di Portici.

Ubi major, minor cessat: nonostante l’opposizione del potente nobiluomo, la fonderia continuò a lavorare per Canova e per il re, e a sfornare le meravigliose opere del sommo artista per molto tempo, al punto da prendere radici nel lessico popolare e dare il nome a tutta la zona, conosciuta ancora oggi come “Cavalli di Bronzo”.

CAVALLI DI BRONZO

La signora Carmela abitava a San Giorgio a Cremano, vicino alla stazione dello sferragliante trenino che fa il giro di tutto il Vesuvio, e che prende il nome dalle statue dello scultore trevigiano.

La donna viveva in una posizione invidiabile, tra le due ville magnifiche, mentre la fonderia era chiusa già da molti anni. La signora Carmela non ci stava tanto con la testa: alta circa un metro e mezzo, aveva dei begli occhi neri spalancati su di un mondo che non comprendeva a pieno, e una bocca dalle turgide labbra sempre coperte da grossi strati di rossetto vermiglio, che facevano risaltare i capelli dello stesso colore, acconciati come Moira Orfei. Non stava troppo bene nemmeno il signor Giuseppe, suo marito: un pezzo d’uomo che avrebbe potuto sollevare il dottor Gardenia con una mano sola, ma che non riusciva a concentrarsi su nient’altro che non fosse il fornello della sua pipa oppure sul modo di mettere un piede davanti all’altro.

Fortunatamente per loro, i signori Esposito godevano di ottime pensioni per invalidità totale, conseguite in virtù della loro demenza, che però fortunatamente concedeva loro dei frequenti sprazzi di lucidità, per la breve durata dei quali si comportavano in modo perfettamente normale, e potevano addirittura prendersi amorosa cura di uno splendido gatto, un incrocio di soriano grigio tigrato che si chiamava Zucchero.

Il micio, il cui nome rispecchiava in modo totale la dolcezza del carattere, ma che gli era stato imposto per via del colore degli occhi uguale a quello delle antiche confezioni dello zucchero, sembrava portare dentro di sé tutta la saggezza che mancava ai suoi stravaganti padroni.

Drrrrinnn!

“Signuri’ quello, Zucchero sta malato, per piacere potete venirlo a prendere a casa per curarlo?

“Signurì, voi lo sapete che io mi dimentico di dargli le medicine, e poi Peppino mio marito, che Dio lo conservi, certe volte invece di prendersi le sue pillole per la pissicosi, si è ingoiate quelle che mi avete dato per Zucchero quando aveva i vermi, e poi si è sentito male!”

Marisa, che riusciva sempre a rispondere al telefono per prima, rimase per qualche istante basita, pensando ad uno scherzo, però poi, riconoscendo la voce della signora Esposito, sbarrò gli occhi grigiochiari e puntò il telefono verso il titolare che era proprio lì vicino, toccandosi ripetutamente la tempia con l’indice dell’altra mano e contemporaneamente gonfiando le gote: la signora Esposito non solo era un po’ fuori di testa ma anche un po’ fuori forma.

Il dottor Gardenia dapprima tentò di negarsi, facendo un passo indietro e agitando la mano davanti a sé, poi però dovette rispondere, perché Marisa gli sbatté il ricevitore in mano dopo aver rassicurato l’ansiosa signora dall’altra parte del filo: un attimo soltanto, le passo il primario!

Il primario ascoltò la telefonata tenendo il ricevitore a venti centimetri dall’orecchio, senza riuscire ad interrompere nemmeno per un attimo il fiume in piena della logorrea altisonante della signora Esposito, limitandosi a qualche si e qualche no accompagnati dai relativi movimenti del capo, quando la donna gliene dava il tempo.

La telefonata terminò proprio con un si, in risposta alla domanda “vi ricordate dove abito?”

Via Cavalli di Bronzo a San Giorgio a Cremano è una strada lunga e tortuosa dove convivono tuttora le due dimore patrizie: Villa Bruno, con annesso capannone della fonderia di Canova, ora tristemente abbandonato, e Villa Vannucchi. Poi c’è un mercatino rionale, i Carabinieri, la stazione della Circumvesuviana, abitazioni di lusso, palazzi borghesi, case coloniche e vere e proprie catapecchie.

Naturalmente la signora Esposito non dimorava in una villa: la casetta ad un piano aveva un’aria di abbandono, il cancelletto un po’ sbilenco e arrugginito era privo di targa e di campanello, ma una finestra al piano terra fungeva egregiamente da citofono e da cappa per la cucina.

Dalla finestrella semiaperta, in quel limpido mattino d’autunno, si propagava un profumo celestiale.

“Signora! Signoraa!!”

“Ma insomma chi è?”

“Veterinario…”

“Che vuoi, veterinario?”

“Signora, mi ha chiamato per Zucchero, ci siamo sentiti stamattina!”

“Ummaronnamiadottòscusatetanto, sò nu poco distrattam’aggio scurdate, venitevenite, ma poi ditemi una cosa, veterinario… Ma perchè non dite il dottore di Zucchero? ”

D’abitudine, essendo un po’ prevenuto rispetto al disagio mentale, il dottor Gardenia quando si recava a far visita a Zucchero a domicilio, si portava una guardia del corpo, nella persona di Alessandra, la sua bionda assistente dagli occhi verdi, che incuteva un senso di rispetto da parte della signora Esposito e un atteggiamento di sdilinquimento amoroso da parte del consorte.

In questo caso ci si era accordati che il titolare sarebbe entrato in casa, mentre Alessandra avrebbe fatto da palo all’esterno, intervenendo solo in caso di difficoltà.

Normalmente, il procedimento per il recupero del gatto era il seguente: Zucchero, non appena vedeva il veterinario, saltava agilmente al di sopra dei pensili della cucina, facendo cadere rovinosamente la collezione di lattine di birra vuote che il signor Esposito collezionava da anni e riposizionava poi puntigliosamente nella solita architettura traballante con cura maniacale, scusabile nel suo caso, essendo affetto proprio da tale sindrome. Recuperata una scaletta pericolosamente sgangherata, il paziente professionista si arrampicava con cautela fino alla sommità del mobiletto, mentre la signora Esposito contemporaneamente sorreggeva in qualche modo l’attrezzo e urlava a squarciagola contro il marito. Il signor Esposito in genere, proprio in quel momento sentiva la necessità di recuperare la sua pipa, lasciata nell’angolo opposto della cucina, passando sotto la scala. Gli strali della piccola signora venivano diretti anche contro Zucchero, nell’inutile tentativo di convincerlo a scendere, ma che ottenevano solo di farlo spostare più lontano, finendo con l’abbattere tutta la metallica impalcatura delle birre con fracasso micidiale.

Il simpatico micione, quando vedeva avvicinarsi il suo dottore a portata di braccio, scendeva con un balzo dalla cucina e si infilava sotto il letto, dove il suo carattere scherzoso lo portava a giocare a nascondino per un lasso di tempo molto preciso, cioè fino a quando, persa la sua proverbiale pazienza, il veterinario si impadroniva di una scopa e carponi sotto il letto, minacciava il felino fino a convincerlo ad infilarsi spontaneamente nel suo polveroso portagatti.

Quella volta invece, Zucchero era acciambellato tranquillamente sul tavolo della cucina e osservava con aria attenta e interessata un grosso tegame che sobbolliva su di una fiamma bassissima, e dal quale proveniva un aroma inconfondibile, che lo aveva con ogni evidenza inebriato.

“Dottò, se volete favorire con noi, sto preparando la Genovese”

La serietà professionale del dottor Gardenia, che già non arrivava al minimo sindacale, ebbe un grosso nocumento da quella proposta. La Genovese era uno dei suoi piatti preferiti, e si sentiva che la signora Carmela faceva parte della scuola napoletana della Genovese più tradizionalista, quella che intende la pietanza, peraltro sconosciuta nella città della Lanterna, come piatto unico e completo: primo, secondo e contorno.

La storia dice che nel 1971 a Parigi, una ricercatrice, la dottoressa Marianne Mulon, riportò alla luce due trattati di arte culinaria medioevale, conservati nell’Archivio Nazionale Francese. Uno dei due era il Liber de Coquina, di un anonimo autore trecentesco, cuoco presso la corte angioina napoletana: si trattava di un ricettario del mondo principesco e colto dell’epoca, che attingeva a culture diverse e internazionali, degne del dedicatario, Carlo II d’Angiò.

E’ proprio in questa miscellanea di ricette scritte in latino, in cui si nomina per la prima volta la “Tria Ianuensis”. Tria deriva dall’arabo itriya, itria in greco, e con tale nome si usava indicare ancora in età bizantina, vari tipi di pasta. La traduzione dal latino della ricetta al numero sessantasei del ponderoso volume, suona all’incirca così:

 

Per fare la tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti acqua bollente, fa cuocere e mettivi sopra spezie, e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi, e servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne.

 

“Si po’ lu vuo’ fa mbuttunato, pigliarraje nu bello laciertiello, nce farraje nu pertuso a luongo, a luongo: po’ piglia na fella de prosutto e la ntretullaraje, nu poco de petrusino pure ntretato, quatto spicole d’aglia, pass e pignuole, na capa de casecavallo fatta a pezzulle e la mbottunarraje: miettelo dint’a nu tiano cu llardo pesato, na cepolla ntretata, sale, pepe e tutte spiezie e fallo zuffrijere buono, buono: confromme s’arrussesce miettece nu poco d’acqua a la vota e accossì farraje nu bello brodo pe li maccarune e pe ogne ncosa.”.

 

In sostanza si tratta di far cuocere lungamente un ottimo taglio di carne in una gran quantità di cipolla soffritta in olio d’oliva, facendo in modo che l’ortaggio perda la sua asprezza, e rimanga così solo la dolcezza ad abbracciare i lunghi ziti spezzati a mano, che sposeranno il sugo paradisiaco.

Formaggio grattugiato a piacere.

A salvare il giovane veterinario dall’ennesima burla da parte delle sue aiutanti che lo accusavano di distrarsi troppo spesso alla vista di giovani signore e di pietanze regionali, ma senza immaginare di metterlo in una situazione molto più pericolosa, ci pensò il bravo gatto Zucchero, che girando gli occhi luminosi verso la porta, inquadrò in una frazione di secondo la situazione rischiosa, e con un movimento fluido ed elastico balzò a terra, infilandosi tra le gambe della padrona, scomparendo nella baraonda della camera da letto, evitando per una volta la scalata ai mobiletti di cucina.

“Fregato”, pensò tra sé il dottor Gardenia, “sei in trappola!”

“Presto signora, chiudiamo la porta” e la brava cuoca obbedì all’istante, non senza urlare all’indirizzo del marito “Peppì, Peppìììì, à Genovese!” con la speranza che Peppino non si perdesse nella contemplazione delle sue ciabatte sfondate e si ricordasse di controllare la cottura della carne.

Peppino, il quale invece una volta tanto sembrava seguire con interesse i movimenti che avvenivano in casa, ascoltava ogni parola con attenzione anche se non riusciva a sentire tutto in modo chiaro, essendo un po’ duro d’orecchio, e purtroppo la batteria del suo apparecchio acustico era quasi scarica.

“Signora Carmela, le dispiacerebbe prendere una scopa?” venne recepito dal sospettoso marito come “Carmela, le piacerebbe se la scopo?” provocando un senso di inquietudine nella montagna umana, che afferrò per un braccio la moglie nel momento in cui uscì per recuperare l’attrezzo richiesto dal veterinario.

“Cosa state facendo di là?”

“Peppì, pensa alla Genovese, statte zitto” e si chiuse la porta alle spalle, rafforzando il gesto di esclusione con una mandata di chiave.

Alla flebile domanda del giovane professionista, la signora Carmela rispose urlando a squarciagola per farsi sentire dal consorte “niente dottò, Peppino è geloso…si crede che vulite fa l’ammore cu mme”

Il geloso, che origliava dall’altra parte porgendo il lato guasto del suo apparecchio, udì solo le ultime quattro parole, e nella sua mente obnubilata immaginò la scena dell’amplesso tra la voluttuosa consorte e il giovane fedifrago, così in preda alla frenesia afferrò dal suo supporto un grosso mattarello, principe degli accessori di cucina della signora Carmela, e cominciò a spingere con forza sulla porta della camera da letto.

Tale porta, prodotta da una fabbrica nota per i prezzi bassi e per la scarsa qualità dei suoi prodotti, dopo un flebile tentativo di resistenza cedette di schianto sulla schiena della matura casalinga, mandandola a rovinare addosso al dottor Gardenia, il quale si trovava inginocchiato e con la testa sotto il letto, intento a convincere Zucchero ad arrendersi. La scena diede a Peppino la conferma del tradimento che avveniva sotto i suoi occhi. La sua reazione fu immediata, ed il mattarello venne calato con forza sul cranio dello stupratore, che però non si avvide di nulla essendo soffocato dal corpaccione della presunta amante, la quale si beccò la bastonata giusto tra capo e collo, svenendo all’istante.

“Maledetto” urlò Peppino, di solito il più mite degli uomini, “vieni fuori che ti ammazzo!”

Il giovane, resosi ora conto del pericolo, si guardò bene dall’obbedire anzi si trascinò ancora di più sotto al lettone, raggiungendo finalmente Zucchero, il quale ora si lasciò avvicinare osservando il veterinario con interesse e leccandosi con calma la zampina.

Da cacciatore a preda, il veterinario fu varie volte colpito dalla scopa manovrata goffamente da Peppino, che sempre più agitato urlava frasi sconnesse ma non prive di accenti omicidi. Il dottor Gardenia, con Zucchero stretto fra le braccia, fu infine costretto ad uscire dall’altro lato del letto, al cospetto del geloso marito.

Il gigante, vedendo il rivale alla portata di mattarello tentò di raggiungerlo saltando sul letto. In quel momento, il dottor Gardenia stretto nell’angolo, pensò che per lui fosse finita, e chiuse gli occhi, disperandosi per quella morte assurda che avrebbe privato il mondo della sua fondamentale presenza.

Nell’atto di sferrare il colpo mortale, mentre urlava a squarciagola, Peppino si irrigidì con il mattarello alzato, strabuzzò gli occhi e cadde riverso sul letto che tentava di scalare. Rotolò poi giù dalle coperte, tremando e sbavando addosso alla sua robusta amata che giaceva ancora esanime.

Fu così che il dottor Gardenia capì di essere stato salvato da una crisi epilettica, e rivolse un grato pensiero al suo angelo custode. Dopo un momento, il veterinario riaprì gli occhi accorgendosi di essere ancora vivo, e si guardò intorno: Carmela e Peppino, riversi uno sull’altro respiravano a fatica mentre Zucchero, sempre più tranquillo e interessato, faceva le fusa contro la gamba del suo medico.

Dopo averci pensato per pochi secondi, il veterinario guardò il gatto negli occhi e gli sussurrò: vieni con me, o rimani con questi due pazzi?

Zucchero non esitò un attimo e si accomodò nel portagatti.

Uomo e gatto superarono in fretta i corpi distesi sul pavimento, diretti verso la porta di ingresso, ma arrivati sull’uscio, l’uomo si voltò indietro, tornò sui suoi passi e sollevò la cornetta del telefono appeso al muro della cucina, facendo rapidamente un numero sull’antiquato disco: “Pronto ambulanza? Un matto ha aggredito sua moglie e poi si è sentito male si, si, Esposito…Via Cavalli di Bronzo”

Il giovane professionista afferrò di nuovo la porta per fuggire, ma venne colto da un altro pensiero fulminante. Tornò rapidamente sui suoi passi con il suo fardello vivente stretto sotto il braccio, e andò alla cucina a spegnere il fornello dove stava lentamente sobbollendo la Genovese, poi dopo una breve esitazione mollò il portagatti e afferrò il grosso filone di pane di San Sebastiano dal tavolo, ne spezzò l’estremità e sollevando il coperchio si beò per un istante del delizioso profluvio, quindi immerse nel denso sughetto il “cozzetto” debitamente svuotato dalla mollica, riempendolo con dovizia di pezzetti di carne e cipolla, richiuse la pignatta e si allontanò, brontolando per le ustioni al palato e insultando in modo volgare il povero Zucchero, che si lamentava a gran voce per l’esclusione dal banchetto.

Appena fu in strada, vide Alessandra che si avvicinava: in ansia per il ritardo del principale stava andando a controllare, ma lui tenendo una mano davanti alla bocca piena, fece segno alla bionda assistente di mettere in moto il vecchio furgone azzurro e con altri eloquenti gesti la esortò ad allontanarsi rapidamente.

La ragazza seppur stranita, obbedì senza farselo ripetere due volte.

Zucchero venne portato in ambulatorio, e lì rimase fino alla fine dei suoi giorni, libero di passare le belle giornate in giardino e di dormire beatamente vicino alla stufa nelle fredde sere invernali.

Carmela e Peppino vennero ricoverati in due strutture diverse dalle quali non uscirono mai più.

Ogni tanto, quando la cucinava, il suo nuovo padrone portava a Zucchero un pezzetto della pietanza che gli piaceva di più al mondo.”



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