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Oggi parliamo con… Mauro Casiraghi

Da Gialloecucina

Salve a tutti! Nell’intervista di oggi andiamo a conoscere meglio Mauro Casiraghi, autore dei romanzi La camera viola e Un chilo di cenere (recensiti entrambi nel blog).  Ha recentemente pubblicato in formato digitale anche un libricino interessante per due motivi. Infatti Interviste sull’arte di scrivere è valido sia per i contenuti ma anche per il fatto che il vostro euro speso andrà in beneficenza.

Vi lascio all’intervista non senza prima ringraziare Mauro per la gentilezza e per averci regalato unpo’ del suop tempo!

Intervista a Mauro Casiraghi a cura di Elio Freda

 

Benvenuto a Giallo&Cucina. Un caffè? Un aperitivo?

Odio il caffè. Non ne bevo più da anni. Sono più per il tè con il latte, all’inglese. L’aperitivo invece lo prendo sempre volentieri, più volte al giorno se possibile. Al prosecco o all’orribile spritz preferisco sempre la birra. Oppure qualcosa di più forte, come un Old Fashioned, il drink di Don Draper nella serie televisiva Mad Man.

Come di consueto, ti preghiamo di presentarti al pubblico. Chi è e perché scrive Mauro Casiraghi?

Sono uno sceneggiatore che scrive libri, o uno scrittore che scrive sceneggiature. Mi divido tra questi due mondi – quello della parola scritta e quello dell’immagine – nella convinzione che siano più separati di quanto normalmente si pensi. Per questo motivo non credo che i miei libri abbiano necessariamente qualcosa di cinematografico (anche se alcuni lo affermano) nè che le mie sceneggiature abbiano qualcosa di letterario (cosa che spesso si traduce in un difetto).

A dare un’impronta alla mia scrittura è, più probabilmente, il fatto che ho scritto e pubblicato i primi racconti in inglese, quando facevo l’università in Canada. Per questo forse amo gli scrittori che scrivono in altre lingue rispetto a quella d’origine, come Samuel Beckett, Joseph Conrad e Agota Kristof. Alla domanda “perché scrivi?” mi viene istintivo rispondere: “Per non farmi venire un tumore.”

Quando e come ha avuto origine la tua passione per la lettura? Qual’è il tuo rapporto con la cucina?

Ci sono state due fasi ravvicinate fra loro. La prima è stata la scoperta dei libri come un mondo che si spalanca e ti cattura, a quindici anni, quando una zia mi regalò “Il barone rampante”. Lì sono diventato un lettore cosiddetto avido. Assetato. Dipendente. Assuefatto. La seconda fase, un paio d’anni dopo, quando ho letto i Diari di Kafka, che mi hanno spalancato una finestra sul lato opposto della scrittura, quello di chi la fa. Alla morbosa curiosità per la vita intima degli scrittori si è aggiunto allora il desiderio di diventare uno di loro.

“Un chilo di cenere”. Com’è nata l’idea?

La risposta più classica e immediata è: da un’immagine. In questo caso due. Un vecchio padre morente da una parte, e un figlio eremita su un lago ghiacciato dall’altra. Come colmare questa distanza – fisica e morale – è stato lo sviluppo successivo della storia. Ma la verità è che le immagini che si fissano nella mente e da cui si parte per scrivere sono l’espressione di qualcos’altro che si scopre dopo, scrivendo. E che non rivelerò nemmeno sotto tortura.

Ti sei ispirato a qualche persona reale per la caratterizzazione del tuo protagonista o è solo un parto della tua fantasia?

Prendo sempre pezzi e dettagli di persone reali per descrivere i miei personaggi, mai la persona intera.  Per esempio, il vecchio padre morente ha la faccia di Richard Yates, lo scrittore americano morto di enfisema polmonare, in miseria e dimenticato da tutti. La giovane postina di sangue misto è ispirata a una ex fidanzata canadese che nella realtà fa la biologa.

A volte vengo sgamato in questo mio rubacchiare pezzi di persone che conosco. Nel primo romanzo che ho scritto, La camera viola, la donna di cui il protagonista va in cerca disperatamente è la proiezione da adulta del mio primo grande amore adolescenziale, descritta come un po’ appesantita dagli anni. Dopo aver letto il romanzo, la mia ex ragazza che non vedevo da anni mi ha chiamato al telefono. “Mi è piaciuto molto” ha detto, riconoscendosi facilmente nella protagonista femminile, “ma hai fatto un errore.” “Quale?” “Io non sono affatto ingrassata in questi anni!”

La storia si svolge essenzialmente a Roma. Quale il tuo legame con questa città? Ne hai una conoscenza diretta o hai dovuto documentarti diversamente per rendere tanto credibile l’ambientazione?

Vivo da diversi anni fuori Roma, in collina, e con la Città Eterna ho sempre avuto un rapporto di guardinga fascinazione. Come una cosa troppo bella per poterla sentire mia. La camera viola racconta la storia di un uomo con un’amnesia che va in cerca di una donna misteriosa, e in questo caso la città fa da sfondo alle sue peregrinazioni. Scrivendo mi capitava di vedere un albergo, un ristorante, una strada che poteva servire alla storia, e ce la mettevo dentro.

Per Un chilo di cenere il discorso è stato diverso. Di Roma mi interessava in particolare raccontare di un ponte  durante una piena del Tevere. Mi ha colpito molto la storia di un turista irlandese che, qualche anno fa, è caduto ubriaco nel fiume ed è stato trascinato per chilometri senza che nessuno potesse fare niente. Ho fatto molti sopralluoghi su questo ponte, ci sono stato spessissimo durante i periodi di pioggia battente che gonfiano il Tevere e rischiano di farlo esondare, l’ho fotografato e l’ho studiato su Google maps per vederlo in tutte le stagioni dell’anno. Ancora oggi ogni volta che passo di lì penso a quel turista affogato di cui ho scritto nel romanzo.

Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate nella stesura della romanzo?

Tanto il primo è stato rapido e facile da scrivere, tanto il secondo mi è costato fatica e anni di lavoro. Il problema principale è stato scrivere di quattro personaggi diversi con i loro quattro punti di vista e farli poi convergere tutti insieme nell’ultima parte della storia.

La camera viola è raccontato in prima persona al presente. Doveva per forza essere scritto così perché il protagonista soffre di amnesia, quindi non ha un passato, una memoria, ma solo un presente dal quale cerca di ricostruire la sua vita, la sua identità, e quella della donna che cerca.

Un chilo di cenere invece è in terza persona, con ogni personaggio che tende a viaggiare con la memoria nel passato, cosa che ha richiesto di spingere la scrittura nel complesso territorio del trapassato. Un tempo verbale affascinante, pieno di significati e rimandi, ma alla lunga difficile da gestire.

 A chi e perché consiglieresti la lettura del tuo libro?

Per chi ama i quadri di Hopper e cerca un libro che si legga in modo scorrevole ma che allo stesso tempo prova a esplorare un minimo la complessità dell’ossessione amorosa, direi di provare con La camera viola, a patto che non voglia il lieto fine a tutti i costi.

A chi preferisce “L’impero delle luci” di Magritte ed è più esigente da un punto di vista letterario, a chi ha più pazienza e voglia di camminare sulla superficie ghiacciata di un lago, consiglio Un chilo di cenere. Dove, nel finale, c’è quasi il rischio di scoprire una vena di ottimismo.

 Cosa puoi raccontarci a proposito della tua esperienza editoriale?

Anche qui, due fasi. La prima la racconto sempre volentieri per incoraggiare chi cerca di essere pubblicato. Ho scritto il romanzo, l’ho messo in una busta, l’ho spedito a un po’ di editori, a casaccio. Dopo un anno mi ha chiamato Massimiliano Governi, che allora lavorava presso Fazi, per dirmi che volevano pubblicarlo. Tutto molto semplice.

Il secondo romanzo invece non lo voleva nessuno. Nè editori grandi nè quelli piccoli. Forse è colpa del trapassato. O forse è cambiato qualcosa nel mondo dell’editoria italiana. Fatto sta che alla fine mi sono stufato di sentirmi dire che il libro è bello ma non c’è spazio per pubblicarlo. L’ho pubblicato da solo, in formato ebook, su Amazon. E sono contento di averlo fatto.

Che tipo di lettore sei? Ci sono degli autori ai quali ti ispiri o che rappresentano per te un modello di riferimento?

Vorrei avere scritto libri come “Vergogna” di Coetzee, “Le braci” di Marai, “Un cuore così bianco” di Marìas, “Revolutionary Road” di Richard Yates, “Il soccombente” di Thomas Bernhard, “Opinioni di un clown” di Boll, ma è un grave errore cercare di ispirarsi a questi autori. Chi scrive deve avere letto tanto, ma poi quando scrive deve dimenticarsi ciò che ha letto e scrivere come se fosse il primo libro sulla terra. Altrimenti farà solo delle copie.

Hai altri progetti letterari in cantiere?

Un nuovo romanzo tratto da un fatto di cronaca terribile: una donna vive con un proiettile in testa dopo che il suo fidanzato geloso le ha sparato.

A tua scelta: lasciaci con una citazione o con una ricetta!

In Un chilo di cenere il protagonista vive da solo in un cottage isolato sulle rive di un lago canadese. Al mattino si prepara per colazione un french toast.

Ingredienti: Due fette di pane. Due uova. Zucchero di canna. Burro. Cannella. Sciroppo d’acero.

Preparazione: 15 minuti. Facile.

Si sbattono le uova in un piatto fondo. Mischiate due cucchiaini di zucchero di canna e una spolverata di cannella in polvere. Mettete le fette di pane, anche secco, ad ammorbidirsi.

Cospargete una padella antiaderente di burro. Quando è bella calda, mettete le fette di pane zuppo a friggere. Girare quando sono dorate.

Servire in un piatto e cospargere con una bella dose di sciroppo d’acero.

Variazione per i golosi: al posto dello sciroppo d’acero  spalmate il pane fritto con burro d’arachidi.

Variazione per i suicidi: sopra al pane fritto cosparso di burro d’arachidi, aggiungete una banana fritta nel burro. Consigliato per i climi freddi.

Buon appetito!



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