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Oggi, per Anita Garibaldi

Creato il 17 marzo 2011 da Rita Charbonnier @ritacharbonnier

In occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia pubblico qui in anteprima assoluta, in accordo con Edizioni Piemme, le prime pagine del mio nuovo romanzo Le due vite di Elsa. Uscirà il prossimo 10 maggio e proprio in questi giorni sono alle prese con le bozze (per questo non ho pubblicato nuovi post). Il personaggio di Giuseppe Garibaldi, e soprattutto quello di Anita, ha un grande peso nella storia, come potete scoprire leggendo la presentazione del libro già presente su laFeltrinelli.it. Buon compleanno, Italia! E un pensiero di gratitudine alle grandi donne che hanno combattuto per unificarla.
Le due vite di Elsa di Rita Charbonnier – Edizioni Piemme
Oggi, per Anita GaribaldiEntra nel cimitero di notte. Attorno a lui c’è umido, odore di frasche e qualche lucciola. Procede con prudenza, attento a non smuovere la bisaccia che porta su una spalla; inspira ed espira regolarmente, a tempo con il ritmo dei passi. Tiene la torcia puntata verso il basso, illuminando una fila di mattonelle inserite di taglio sul lato del sentiero.
Giunge sul posto. Prima una luce in avvicinamento, poi le sagome scure dei suoi complici. Bisogna divellere la lapide. Estraggono guanti e spranghe dalle bisacce, scostano il terriccio sul perimetro con zappa e piccone, preparano il piede di porco; si accordano con un sussurro e si provano a spostarla, non molto, giusto per valutarne la pesantezza. Rincalzano i ferri. È importante che siano sistemati nel punto giusto e orientati nel verso giusto. Un terribile cigolio di protesta e in pochi secondi la lastra è sollevata e trascinata di lato, accanto a un’altra tomba.
Di nuovo il silenzio. Trattengono il fiato illuminando la fossa: non è profonda. Estraggono e svolgono le corde. Occorre passarle attorno al feretro e annodarle, per poi tirare dall’alto. Ritto a un’estremità della tomba, l’uomo dirige le operazioni e segue con lo sguardo la bara emergere lentamente e tornare all’aria aperta. Percepisce il tonfo sul terreno, afferra una torcia, uno straccio e si precipita a sfregarne un lato: è una piccola cassa, avvolta nelle fibre sfilacciate di quello che fu un drappo tricolore.
Contiene i resti di sua nonna, Anita Garibaldi, e nel ripensare a quel che lei ha rappresentato nella sua storia personale, e in quella del paese, l’uomo è assalito per un istante dall’assurdo desiderio di schiodare il coperchio. Immagina che all’interno potrebbe trovare un libro, una fotografia, una lettera; uno di quegli oggetti che i sopravvissuti talvolta seppelliscono con i defunti, perché li portino con sé nell’altra vita. Aprire la cassa, tuttavia, riporterebbe bruscamente sua nonna in questa vita, e non sarebbe piacevole.
I vivi attribuiscono ai resti, dai quali si tengono ben separati, un valore esorbitante. Sia i personaggi pubblici, sia le persone comuni lasciano dietro di sé una scia di memoria, che di continuo si trasforma e si trasfigura; e i resti ne costituiscono l’aspetto tangibile. Quel corpo fu prima una prova da nascondere, poi uno scandalo sul quale indagare, e ancora una gloria da onorare pubblicamente; finché non è divenuto l’oggetto di una contesa tra due nazioni. La persona di Anita, però, ha poco a che fare con tutto questo. Ovunque lei risieda, quel luogo non è qui.
È ora di procedere. Tornano alla lapide e con l’aiuto delle corde la rimettono al suo posto. Nascondono le tracce e ripongono gli attrezzi nelle sacche. I più in forze si accingono a sollevare la bara; in alcuni punti è scivolosa sotto i guanti e ne provengono fruscii di spostamento. Riescono a sistemarla in spalla e capeggiati da Ezio Garibaldi la portano via, in un corteo solenne e segreto.
2.
“La ragazza non è all’altezza. Una particina l’avrebbe anche impapocchiata, ma ti pare che possiamo darle un ruolo? Andiamo incontro al disastro.”
“Secondo me non c’è da preoccuparsi. L’età è quella giusta, e nel fisico è un po’ pesante, ma non è malfatta. Reciterà in modo passabile, sotto la tua direzione sapiente.”
“Evita di adularmi e guardala: sembra una balorda. Mi mette persino a disagio averla intorno. E poi balbetta!”
“Non lo fa sempre… avrà la luna storta.”
“È quel che dico io: è lunatica. È timida. È grassa. Non è graziosa. Non è adatta a fare l’attrice.”
“Ugo, lei non è un’attrice! È una ragazzina che ci teniamo in compagnia per qualche tempo; le mettiamo una parrucca e speriamo che non perda i sensi la sera della prima. E se li perde, se ne accorgeranno in pochi. Non è un ruolo: quella di Anita Garibaldi è una mezza comparsata. Allontaniamoci.”
L’impresario trascinò il primo attore fino alla porta d’ingresso della platea. Sul palcoscenico gli interpreti bighellonavano, gettando ai copioni occhiate distratte e fingendo di meditare sui rispettivi personaggi. Nell’elegante abitino color crema e nel paletot, Elsa Puglielli era immobile di fronte a una quinta; fissava il retropalco, divisa tra il desiderio di nascondersi e quello di restare, e continuare a origliare. Sulla parete qualcuno aveva affisso un Cristo in croce. Sul suo capo i fari emanavano un calore attaccaticcio. “Cos’è questo? Come ci sono arrivata?” ripeteva a se stessa. Alla lettura a tavolino, in effetti, aveva balbettato orribilmente.
“Hai fatto un grosso sbaglio, Manlio. Esigo che lo riconosci e mi togli da questo pasticcio.”
“È escluso. Non posso fare una figura simile con suo padre.”
“Me ne frego” rispose il primo attore, rabbioso. Estrasse il portasigarette dalla giacca, ne scelse una e ne batté un’estremità sul coperchio d’argento. “E non mi va di mandare in vacca uno spettacolo perché quello ha una figlia scema di cui non sa che fare. La rinchiudesse da qualche parte!”
“Abbassa la voce, porco cane… vuoi che senta?”
Elsa avvertiva ogni sussurro. Si trovava sul palco, e nello stesso tempo accucciata sotto le poltrone di platea, tra i topini in cerca di briciole, e acquattata dietro le spalle dei due uomini, ampie e squadrate. Sapeva espandere la percezione oltre i confini fisici dei sensi; s’immaginava circondata da una campana trasparente, fatta di una materia elastica e leggera, che lei poteva ampliare fino a comprendere le cose più lontane.
“Del monologo finale che mi dici? Quando mai lo farà!”
“Basta, Ugo! Non capisco il tuo accanimento. Abbiamo problemi più seri, in questo spettacolo. E poi lei sarà anche stramba, ma almeno non è una delle solite signorine all’acqua di rose.”
Elsa lanciò un’occhiata verso la prima attrice, che aveva il singolare nome di Demetra ed era intenta a sciogliere un nodo sulla lunga collana che indossava. “Anche tu pensi che io sia stramba, vero? Che io non sia normale.” La donna si volse di scatto a guardarla, quasi avesse captato il suo pensiero. Lei abbassò il capo e ficcò le mani nelle tasche del paletot, che non aveva voluto togliersi di dosso e che non avrebbe tolto neanche adesso, malgrado sudasse; prese a grattare le cuciture tra stoffa e fodera, fino ad allentarle. Zia Olga l’aveva sottoposta a una manicure lunga e laboriosa. Le aveva limato le unghie bene a punta; aveva spinto le pipite verso il basso e le aveva tagliuzzate, così da esporre la “mezzaluna” alla radice; aveva steso una lacca color rosa pallido. Anche l’acconciatura era passata attraverso le sue cure: le onde che Elsa aveva attorno al viso, incollate con strani pastrugli, erano opera della zia. Aveva scelto nel vestibolo una gonna svasata (che le slanciasse “almeno un poco” la figura), un paio di scarpe con il tacco e un cappellino; e alla fine, contemplandola, aveva commentato che era sempre un po’ sgraziata, ma pareva quasi un figurino.
“Signorina Puglielli!”
Sobbalzò e si volse verso la platea.
“Signorina, ha sentito?”
Annuì.
“E allora, risponda!”
La campana immaginaria si dissolse in un istante ed Elsa si sentì decine di sguardi puntati addosso. Bisognava che parlasse; ma cosa mai poteva dire? Forse semplicemente: “Desidera, signore?”. Si ritrovò divisa tra un’ansiosa fretta di cimentarsi nell’impresa e la certezza che non ci sarebbe riuscita. Le parole le sarebbero rimaste nella gola. A furia di tentativi avrebbe preso a fare smorfie oscene. Immaginò l’imbarazzo dei presenti, i commenti a mezza bocca (“è un’incapace”, “ma come si può pensare di far recitare una così?”). Dal fondo della sala il signor Ugo Cacciapaglia, avvolto in una nuvola di fumo, tornava a incalzarla e il signor Manlio Ammirati sbraitava: “Ma lasciala in pace, e che diavolo!”. L’attore ringhiò in risposta: “Non ti permetto di darmi ordini!”. Allora lei chiuse gli occhi, prese un respiro e ripeté in un solo fiato: “Il Brasile è uno dei più vasti paesi della terra e abbraccia circa la metà della superficie del Sudamerica con metà della sua popolazione e si estende per la più gran parte del suo territorio nella zona torrida!”.
In un silenzio attonito gli attori la guardarono, si guardarono, ghignarono.
Era il testo di geografia del Ginnasio. Aveva imparato a memoria l’intero capitolo sull’America del Sud e non l’aveva più dimenticato.
“Forse hai ragione. Un po’ balorda lo è” fu il commento dell’impresario, giù in platea.
Le due vite di Elsa – © Rita Charbonnier ed Edizioni Piemme – data di pubblicazione: 10/5/2011.


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