Il 30 giugno 2012 resterà negli annali ‘povnici come una di quelle tipiche giornate spazio-tempo, nelle quali – se gli scambi di luoghi funzionano come dovrebbe essere – si attraversano in poche ore, macinando una congrua manciata di chilometri, mondi di ogni qualità e genere, trame, personaggi, sensazioni.
Di quello che è successo la mattina, ha già abbondantemente scritto. Resta da parlare del matrimonio dell’anno – un affare che non è per niente semplice, perché la felicità non si racconta. E la ‘povna (come ha già ricordato varie volte) sa di non essere né Jane Austen, né Tolstoj.
Nello stesso tempo, però, non vuole esimersi. E allora – dopo aver leggiucchiato in lungo e in largo – decide di aggiungersi anche lei alla carovana dei virtuali auguri. Lo fa – dietro autorizzazione della sposa – nella maniera più ovvia. E pubblica su Slumberland una versione (moderatamente riveduta) del discorso che ha tenuto in quel fatale pomeriggio. Che – parola più, parola meno – fa così.
Il compito che mi è stato dato non è facile. Assomiglia molto, per certi versi, a quegli ‘onori’ che gli amici ti danno riempiendoti di complimenti – “dai, sarebbe splendido”, “dai, che ti piace scrivere”, “dai, che sai parlare in pubblico” – e che poi si rivela una bellissima, ma terribile (terribile, ma bellissima) esperienza.
Eppure, nonostante sapessi che cosa aspettarmi, nonostante sapessi che poi sarebbe venuto il giorno del redde rationem (e ritrovarsi davanti a tutti – “ma, no, già, per carità, tu sai parlare in pubblico”), ho accettato con convinzione.
Non dirò che “Che la passione, l’amore, la reciproca stima, vi leghino sempre, l’uno all’altra, come nel giorno del vostro matrimonio” (tanto, Noise, te l’hanno già detto gli alunni);
Non discetterò sul codice dell’abito, che deve essere “elegante, formale, serio, educato, formale, formale, formale” (tanto lo ha già fatto Benzina).
E nemmeno mi azzarderò a dire troppo di mio – ché in questi casi, più passi indietro si fanno, e meglio è.
E allora, come d’uso, mi appoggerò ad altri. Invitando i nostri eroi in una passeggiata romantica tra alcuni testi, che potrebbe cominciare così.
“Quella era una trama romanzesca. Era implicato in una storia romanzesca, ordinaria e raffinata allo stesso tempo. Quello del romance era uno dei sistemi che lo dominavano, così come le aspettative romanzesche dominano quasi chiunque nel mondo occidentale, nel bene o nel male, prima o poi”.
Possessione, di Antonia Byatt. E può essere un punto di partenza per ripercorrere il cammino che ha portato i nostri eroi fin qui. Noise e il Benza, come Roland e Maud, si incontrano. Si (ri)conoscono. Si amano. Peripezie di rito. E dunque si rincorrono. La distanza (proprio come accade a Roland e Maud) pesa. Noise raccatta armi e bagagli (cioè: libri e penna rossa) e, come Il partigiano Johnny – con il fucile a tracolla e lo zaino sulle spalle – se ne parte alla volta delle Langhe, (volevo dire: di Torino).
“Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto”.
I suoi futuri alunni (ma anche il Benza) già tremano al solo pensiero.
Le cose scorrono tranquille. Noise ed il Benza si sistemano nella loro casetta. Il cielo su Torino non è quello di Parigi, ma tutto diventa sopportabile, con un poco di spleen. La loro stanza, dunque, prendendo a prestito Baudelaire: “Sembra una rêverie, una stanza veramente spirituale, la cui atmosfera stagnante è leggermente tinta di rosa e di blu. Qui l’anima si immerge in un bagno di pigrizia, aromatizzato dal rimpianto e dal desiderio. – Qualcosa di crepuscolare, di bluastro e di rossastro; un sogno di voluttà nel corso di un’eclisse. I mobili hanno forme allungate, illanguidite, prostrate. Sembrano sognare. Li si direbbe dotati di una vita sonnambolica, come quella dei vegetali e dei minerali. Le stoffe parlano una lingua muta, come i fiori, come cieli e soli al tramonto. Ai muri, nessuna infamia artistica. Di fronte al puro sogno, all’impressione non ancora analizzata, l’arte definita, l’arte effettiva è una bestemmia. Qui tutto ha la chiarezza sufficiente e la deliziosa oscurità dell’armonia”.
È tutto bello. È tutto vero. È tutto simbolista. Ma in questa storia rischiamo di dimenticare un altro importante personaggio. Ebbene sì, dico a te, Garibalda, che in questi anni hai dovuto sopportare questi due pazzi. E a te dedico almeno un pezzettino di un romanzo che ti vede protagonista, Flush (dal nome dell’adorato peloso di Elisabeth Barrett Browning, che racconta la storia dal suo punto di vista) di Virginia Woolf.
“Ho bisogno di un mese, di un anno, di una vita! Ho bisogno di tutte le cose di cui voi due avete bisogno. Siamo tutti e tre cospiratori per la più gloriosa delle cause. Siamo uniti nella simpatia. Siamo uniti nell’odio. Siamo uniti nella sfida della più nera e più balorda tirannia. Siamo uniti nell’amore”.
E dunque, eccoci. Passo dopo passo, libro dopo libro, siamo arrivati qua.
“Ora siete marito e moglie, Lettore e Lettrice. Un grande letto matrimoniale accoglie le vostre letture parallele.
Noisette chiude il suo libro, spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice: – Spegni anche tu. Non sei stanco di leggere?”
Come dice Calvino al termine di Se una notte di inverno un viaggiatore.
Adesso nuove letture, avventure, viaggi attendono Garibalda, Noisette e il Benza.
“Ma questa” – come direbbe qualcuno – “è un’altra storia”.