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Ogni Martone è bello a papà

Creato il 29 febbraio 2012 da Albertocapece

Ogni Martone è bello a papàLicia Satirico per il Simplicissimus

In principio era Brunetta, che definire Verbo sarebbe francamente eccessivo (al più, una Preposizione semplice). Nel maggio del 2008 l’ex ministro della pubblica amministrazione tuona contro i fannulloni, annunciando una nuova era di meritocrazia e di salutari licenziamenti nel settore pubblico. Creatura craxiana autocandidatasi al Nobel,  l’ex ministro ha varato una riforma destinata “a cambiare la vita degli italiani”. O quasi.
È vero che la regola del Gattopardo esige che cambi tutto perché non cambi nulla, ma nel caso della normativa “antifannulloni” non è stato necessario neppure un cambiamento formale. Il blocco della contrattazione collettiva ha rinviato a tempo indeterminato l’entrata in vigore degli incentivi individuali previsti dalla legge Brunetta. Le temute sanzioni ai dirigenti inefficienti sono state azzerate dall’intesa del 4 febbraio 2011 tra governo, Cisl e Uil. E poi c’è la Civit, acronimo di Commissione Indipendente per la Valutazione della Trasparenza e delle Integrità delle Amministrazioni Pubbliche: un ossimorico organo “terzo” subito viziato da conflitti d’interesse e consulenze anomale, generato da Brunetta con la fecondazione eterologa della famiglia Martone.

Prima di diventare viceministro del Lavoro con Monti, nel 2010 Michel Martone, figlio del presidente della Civit Antonio, ha ricevuto da Brunetta una consulenza da 40.000 euro sulla «valutazione degli aspetti giuridici inerenti alla fattibilità degli interventi in materia di digitalizzazione e informatizzazione del settore pubblico nei Paesi terzi». I terzi, si sa, sono creature proverbiali, come il leggendario terzo che gode o l’importuno terzo incomodo. Fatto sta che i Paesi oggetto della consulenza di Martone junior sono gli unici terzi della vicenda. Intervistato sulla vicenda, Antonio Martone ha spiegato con estrema disinvoltura come la consulenza fosse l’unico modo per retribuire il figlio stakanovista, che di fatto lavorava gratis per il mancato Nobel: un pretesto ad personam, palese e legittimato – a sentire il padre – dalle ampie competenze di Michel nel settore del diritto sindacale. Tra Brunetta e Martone senior, Michel è l’incomodo che gode di un incarico da decine di migliaia di euro all’ombra della Commissione Indipendente.

A questo punto qualche maligno potrebbe pensare a una mia ossessione particolare nei confronti della famiglia Martone. In realtà, le cose – o almeno la mia nevrosi – sono più complesse: un’inchiesta dell’Espresso, che prende spunto dalle liaisons dangereuses Brunetta-Martone (o Martoni?), sancisce oggi il fallimento culturale della meritocrazia in Italia, tra opinione pubblica e familismi amorali. Secondo il World Value Survey, il sessanta per cento degli italiani ritiene che tutti debbano essere retribuiti allo stesso modo, a prescindere dalle capacità individuali. La meritocrazia non rientrerebbe quindi nei presupposti etici del nostro stile di vita, improntato a un appiattimento salariale che sarebbe il pendant della piattezza di pensiero.

Questo dato statistico è parziale e ingenuo. Nel nostro Paese familismo e meritocrazia si intersecano in modo nefasto: forse è per questo che gli italiani si ancorano disperatamente almeno allo stipendio uguale per tutti. Il padre Antonio descrive il figlio Michel come il più bravo in assoluto, che merita un compenso superiore agli altri per i suoi servigi. Luigi Frati, rettore della Sapienza, in un’intervista del 2010 ad Antonello Caporale ha dichiarato che il figlio Giacomo (oggi straordinario di scienze e tecniche mediche applicate) si è fatto un posteriore “come un paiolo”. Il disinvolto rettore ha poi rincarato la dose, sintetizzando efficacemente la matrice ambientale del maggiore talento dei figli di professori: “vedendo mamma e papà che pure alla domenica studiano”, a un giovane viene “lo sghiribizzo di emularli”.

Il fallimento culturale della meritocrazia sta proprio in questo: nella remissività con cui si accettano le teorie sulla trasmissione, biopsicologica o ambientale, di ruoli, incarichi e cattedre universitarie. La rassegnazione sugli stipendi arriva dopo, e forse è solo un modo per limitare i danni. Arginare il familismo e premiare il merito sarebbe semplice: basterebbe evitare i conflitti d’interesse, organi di vigilanza inclusi. Invece noi siamo abituati a mettere le volpi, travestite da “terzi”, a guardia dei pollai.


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