Tutto comincia con un piccolissimo parco nel cuore di Taksim e la volontà di pochi ambientalisti di salvarlo dall’inesorabile “rinnovo urbano”. Uno spazio verde, un luogo d’incontro, un bene comune che rischia di dover fare spazio alla logica del profitto e arrendersi alla trasformazione di tutto il quartiere in un immenso centro commerciale, una sorta di parco attrazioni per i turisti che affollano sempre di più le vie del centro. Peccato che quel quartiere abbia un’identità difficile da cancellare. Piazza Taksim, situata di fronte al parco, è il luogo simbolo del dissenso politico. Da sempre, gruppi politici di svariate tendenze, usano quello spazio per dare visibilità alle proprie rivendicazioni. Nel 1977, in quella stessa piazza, circa 40 militanti di sinistra sono stati uccisi mentre festeggiavano il primo maggio. Distruggere Gezi Park e piazza Taksim vuol dire anche cercare di eliminare l’emblema delle lotte politiche della storia repubblicana.
Ecco perché una causa ecologista è riuscita a mobilitare tutta la città e, qualche giorno dopo, tutta la nazione. I manifestanti chiedono di poter essere parte attiva nei processi decisionali che riguardano lo spazio che abitano e si rifiutano di abbassare ancora una volta la testa di fronte al tentativo del governo di sradicare, insieme agli alberi, la storia e l’identità dello spazio urbano. Molti hanno visto nelle manifestazioni di queste settimane uno scontro tra le forze laiche e islamiste del paese. Si è parlato tanto delle proposte per limitare la vendita di alcolici e delle pillole del giorno dopo e di come queste abbiano mobilitato molti giovani a scendere in strada.
Questa però è solo una delle dimensioni della protesta. L’immagine dei Musulmani Anticapitalisti che organizzano la preghiera del venerdì sotto la pioggia tra le tende di Gezi Park, con i militanti dell’estrema sinistra al loro fianco che reggono gli ombrelli, potrebbe completamente ribaltare questa prospettiva.
Prima dell’ultimo e (per
il momento) definitivo sgombero, il parco Gezi era diventato un laboratorio di
cittadinanza attiva che univa gruppi con orientamenti estremamente diversi che
avevano finalmente trovato uno spazio per sfogare tutto il dissenso accumulato
negli ultimi 11 anni di governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo
(AKP), guidato dal carismatico Recep Tayıp Erdoğan, conservatore, islamista
moderato nella retorica e neoliberista nella pratica. Lui, paladino della
democrazia durante le rivolte arabe, viene messo in discussione da un’ondata di
protesta che non accenna a fermarsi nonostante i toni intimidatori, la
repressione brutale, gli innumerevoli arresti sommari e la costante demonizzazione dei manifestanti
attraverso i media main stream.
Di certo non è la prima
volta che una città turca si trasforma in terreno di guerrilla urbana, i curdi
ne avrebbero tante di storie simili, vivono questa repressione da sempre.
Tuttavia il centro delle loro proteste è Dıyarbakır, città curda lontana dai
riflettori e dal turismo di massa nota alla cronaca per tali eventi e
considerata da molti turchi un “covo di terroristi”. Sicuramente molti turchi
che stanno vivendo in prima persona gli eventi di questi giorni,
riconsidereranno la legittimità con cui la politica, in base ai propri
interessi, attacca l’etichetta di terrorista a questo o quel gruppo. Oggi anche
loro se la vedono appiccicare da Erdoğan
e dal prefetto di Istanbul.
I protagonisti di questi giorni sono militanti della sinistra radicale,
ataturkisti, ultras delle tre più importanti squadre di calcio della città,
membri di associazioni della società civile, medici, avvocati, architetti e
gente comune che per la prima volta –armata di elmetto di plastica, occhialini
da piscina e mascherina da chirurgo – si trova coinvolta negli scontri con la
polizia.
Ieri, al ventunesimo giorno di resistenza, con
piazza Taksim e Gezi Park completamente militarizzati, è continuata la
protesta silenziosa iniziata dall’artista Erdem Gunduz. La
resistenza dell' “uomo che sta in piedi”si è propagata anche in tante altre
città. Inoltre tutti i gruppi che fanno
parte della piattaforma di sostegno a Taksim e che hanno animato fino a oggi le
manifestazioni, si sono riuniti in
assemblea in dieci parchi sparsi per tutta la città, con la stessa
energia e entusiasmo dei primi giorni,
perché, così come promettono gli slogan:“questo è solo
l’inizio, la lotta continua!”.
Caterina McSakin






