La ‘povna è tornata con molte immagini e ancora molte parole incagliate nella testa. Vorrebbe metterle su schermo, ma un po’ (ancora) non è tempo, un po’ il tempo è tiranno, e già la vita la tira, su e giù per la giacchetta, con le cose lasciate indietro: finire il verbale del consiglio di classe, e domani accogliere degnamente a pranzo l’Onda, la lista dei libri da adottare, le maledette prove Invalsi, la continua ricerca della casa. Per fortuna, è venerdì; e la lettura la aspetta. Così, anche se questa volta non parla di ragazzi e adolescenti, lei si lascia trasportare dalla bellezza di ciò che ha vissuto in questi giorni, con un secondo omaggio a Andrea Bajani.
Questo è un romanzo sentimentale. Scritto però – secondo lo stile tipico di Bajani – come un réportage che è insieme individuale e multiplo, là dove i rapporti tra singoli (che inevitabilmente si muovono tra loro, creano relazione, ma dunque fanno attrito, e si pestano – questo è l’assunto compuntamente doloroso e saggio di partenza) si incrociano, acquisendo nuovo senso, attraverso l’incontro con il passato e con la storia.
Ogni promessa nasce così, da una crisi di coppia che rotola nelle stanze di una casa un tempo dei sogni e che diventa piano piano estranea, e altro. E una telefonata che riporta nel tempo un’altra casa, un’altra crisi, altri legami e un personaggio, Mario, il nonno del protagonista, ritornato dopo lo shock della ritirata sul fronte russo, e mai ripresosi davvero. E dunque ombra spettrale, presente/assente fino alla morte, nella vita dei suoi familiari. Il viaggio a ritroso di un protagonista provvisoriamente senza un futuro certo (senza la fidanzata, Sara, che lo lascia, senza il figlio sognato che non arriva) diventa così insieme geografico e storico. Nella sua vecchia casa, legata ai ricordi di quanto Mario ancora era una occasionale presenza, incontra (e fa amicizia con) Olmo, un personaggio che è come un nonno alternativo, ciò che Mario avrebbe potuto essere. E che gli racconta (anche lui reduce dal fronte russo) i racconti che avrebbero potuto essere di Mario. La scrittura di Bajani gioca preziosa (ma mai compiaciuta, e, anzi, molto etica) tra i piani temporali, che si sovrappongono e si uniscono, perché (come già in Domani niente scuola) unico è il narratore protagonista che riunisce in sé – ascoltandoli, ma anche agendoli – fisicamente (essendoci, verrebbe da dire, se citare Heidegger non suonasse un po’ compiaciuto, eppure in questo caso molto utile) – i diversi filoni di una trama multipla, sfuocata e spezzettata. Si rincorrono parole, dunque. Tra il narratore e Olmo, dirette, sulla Russia. Tra la madre e il narratore e (dunque) tra la madre e Olmo (fatte di gesti e accudimento). Tra la madre e Sara (soprattutto per telefono) e, dunque, tra il narratore e Sara. E poi, ovviamente, tra Mario e la sua famiglia, attraverso le parole di quest’altro reduce che non cercavano altro che figli e nipoti che ora gli mancano per essere ascoltate.
Mentre la storia si abbarbica, profonda, anche la geografia si apre, prevedibilmente. E il pellegrinaggio si fa, da mentale, geografico, con un aereo preso fino a Rostov per guardare (guardarsi), per capire (capirsi). Fino a un ritorno atteso, ma non troppo. Imprigionato in un aereo che viaggia come nostos, e in un modo condizionale che descrive quella che “potrebbe succedere” all’atterraggio. A sottolineare come la vita sia libero arbitrio, e scelta: periodo ipotetico della possibilità.