Magazine Racconti
Un altro giorno con il cielo grigio. Non ho nulla in contrario con le nuvole, quando decidono di tingersi di questo colore, ma riesco comunque ad accorgermi del senso diverso che sanno dare al tempo; alle giornate in generale. Un sabato con il cielo grigio è un sabato che, oltre a saper ospitare lunghi momenti di lettura, pause davanti alla televisione e tè e tisane a volontà (meglio se con qualche biscotto da sgranocchiare), riesce a ospitare anche momenti, più o meno lunghi e più o meno sereni, di riflessione. Magari mentre si sta seduti sul divano, con un film in dvd a far distrattamente da sottofondo e un piccolo plaid di pile disteso sopra le gambe; di quelli che fino a qualche giorno fa erano ancora chiusi nell’armadio, ben piegati e nascosti sotto mucchi di indumenti altrettanto ordinati.Di tante riflessioni che si possono imbastire, poi, chissà perché, si va sempre a finire a pensare di sé. Ottobre è un mese ancora sufficientemente lontano dalla fine dell’anno, da potersi sentire autorizzati a rinviare ipotetici, forse necessari (ma non è detta!) bilanci personali. Eppure, mi rendo conto che anche per questo 2015 arrivato alla sua decima parte di dodici ne sono già successe di cose, che potrebbero bastare per provare a tirare le fila del discorso. Non ci provo. Manca la voglia.Ma non posso comunque fare a meno di dirmi che, anche stavolta, per certe cose è andata bene. Non che non siano costate fatica. Non che non siano costate lacrime. Non che non abbia dovuto fare i conti con una sorta ormai nota di dolore che, ahimè, sembra avermi preso un po’ di mira. Penso al fatto di credere che un po’ sia colpa mia, che in fondo non si soffrirebbe per niente e per nessuno, se non si permettesse a questo niente e a questo nessuno di toccarci nel cuore. Sì. Indubbiamente, ho la mia giusta dose di responsabilità. Ma… cosa ne rimane, allora, della responsabilità altrui? Se anche fosse vera l’inconsapevolezza individuale dell’esporsi troppo al dolore, gli altri non potrebbero fare da scudo, evitando di infliggere ferite gratuite? Qui aprirei volentieri un lungo monologo sulla superficialità (che a volte è cattiveria pura) umana, ma non è stato questo il giro fatto oggi dai miei pensieri. Appurato di non essere riuscita a trovare la risposta a ogni domanda, mi sono ritrovata a pensare di avercela comunque fatta. Anche stavolta. Anche in una situazione umana che ha del paradossale, dove non sono riuscita a trovare neppure il briciolo di una sincera amicizia. È stata dura aprire gli occhi, ma ce l’ho fatta. Ho pensato a ipotetici ‘grazie!’ da dover elargire, almeno nella mente; almeno nel cuore. Il primo pensiero è andato alla mia famiglia. Perché ha saputo sostenermi, laddove il mio sorriso non ce la faceva a nascere. Perché ha saputo comprendere i miei silenzi e i miei malumori, senza fare troppe domande. Perché ha saputo esserci, nonostante tutto. Sì. Penso sia così l’essere fortunati ai massimi livelli, da questo punto di vista. Poi, però, mi sono ritrovata a pensare un’altra cosa ancora: Grazie a me! E l’ho urlato in mezzo ad altri pensieri. Grazie a me, ancora una volta. A me, che ho voluto credere con tutte le forze che una serie di concetti non compresi (per quanto lunga e tormentosa possa essere stata) non mi avrebbe uccisa dentro. A me, che – nonostante tutto – ho avuto il coraggio di andare in cerca della verità; pur sapendo che ne sarei uscita con le ossa rotte. A me, che nonostante tutto non ho mai reso pane per focaccia e ho sperato di farcela ad abbandonare le lacrime e le crisi di pianto improvvise, senza il bisogno di infliggere colpi bassi. A me, che oggi – oggi, come ieri e più che mai! – riesco ancora a guardarmi allo specchio con la convinzione di non essere una cattiva persona. Non di quelle in grado di bassezze di ogni genere, pur di… non si sa nemmeno che cosa. A me, che non ho mai utilizzato i miei dolori passati come scopo per far del male ad altri. A me, per tutte queste ragioni e per tantissime altre che non starebbero nemmeno in un libro. Allora, sono arrivata a una conclusione rapida, adesso facile da afferrare, avendola a portata di mano, ma quanto mai difficile da raggiungere. Non sono d’accordo con chi dice che: nessuno si salva da solo. È da dentro che parte la spinta per non morire nelle emozioni. È da dentro che parte la voglia di non arrendersi. È da dentro che nasce la grinta per dare il via alla ricerca di nuovi sorrisi. Nessuno può essere salvato da anima viva che lo circondi (per quanto possa essere amorevole come una famiglia), se prima non trova in sé la voglia di salvarsi. Se solo avessi permesso alla situazione di schiacciarmi del tutto, se solo non fossi riuscita a riflettere che non sarebbe stato giusto, se solo non avessi avuto il coraggio di porre domande, per non ricevere risposte (almeno, non dirette) o parole di conforto, se solo mi fossi vergognata di affrontare la mia debolezza a testa alta, anche a costo di andare incontro ad ilarità altrui, se solo avessi permesso alla mediocrità di certi bassi sentimenti di avere la meglio, a quest’ora sarei diversa. Non morta nell’apparenza, ma indubbiamente uccisa nell’essenza. Peggiore, indubbiamente. E sono sicura che ce ne saranno ancora di colpi da evitare, che faticherò sempre a riconoscere il falso a prima vista (un po’ perché per indole cerco di vedere il buono e il vero ovunque, un po’ perché… alle volte, il falso sa mascherarsi bene). Ma c’è viva nel cuore la speranza di farcela ancora; insieme alla speranza che parlare con le persone non sia sempre tanto inutile, che magari capiti di incontrare persone disposte ad ascoltare, ma ascoltare davvero e capire. Persone in grado di leggere il dolore e la paura negli occhi, senza sentire il bisogno di aumentarli; senza coltivare l’ambizione di riuscire a fare di peggio. Non lo so. Alla fine, come tutte le riflessioni che nascono per caso in un giorno di pioggia, a un certo punto il rumore dell’acqua addosso al vetro della finestra mi ha distratto e… subito dopo sono tornata nella confusione di pensieri di un attimo prima; che di solito sono i pensieri tranquilli di sempre.