Cristian Sciacca25 ottobre 2013
È arrivata anche in Italia l’opera prima del tedesco Jan Ole Gerster (classe ’78), Oh Boy – Un caffè a Berlino, trionfatrice ai Deutscher Filmpreis 2013, nonché candidata per l’European Discovery ai prossimi European Film Awards. Il motore dell’azione di Oh Boy (che è una citazione tratta da A Day in the Life dei Beatles) è costituito da una semplice tazza di caffè, ovvero l’oggetto del desiderio del giovane Niko Fischer (Tom Schilling). Niko viene fotografato in una tipica giornata berlinese in cui è costretto ad affrontare vicissitudini e novità: viene mollato dalla sua ragazza, lo psicologo gli nega la restituzione della patente (che gli era stata ritirata per guida in stato d’ebbrezza), lo sportello bancomat gli sequestra la carta di credito e il padre, che fino a quel momento lo aveva mantenuto, gli comunica che da lì in poi dovrà cavarsela da solo. Nel frattempo, in una Berlino in bianco e nero, plumbea ed indifferente, Niko continuerà a cercare senza successo il suo caffè. Oh Boy possiede innanzitutto un dono: la simpatia, nel senso etimologico del termine. Non è difficile infatti immedesimarsi nella routine del protagonista, che conduce un’esistenza un po’ da bohémien senza talento, un po’ da giovane Holden, con una spruzzata di inettitudine sveviana.
Il B/N, che denota qualche pretesa autoriale, più che puntare alla poesia di Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino), strizza l’occhio alla banalità quotidiana di Clerks (Kevin Smith) e al Coffee and Cigarettes di Jim Jarmusch. Inoltre, l’incedere di Niko in alcune inquadrature ricorda vagamente il vagabondo Charlot. La vita monotona che si consuma all’interno del condominio dove abita Niko (che riporta alla mente il simpatico e snobbato Small Apartments uscito quest’anno in Italia direct-to-video), insieme alla fotografia livida, procura alla pellicola una patina di malinconia che provoca a tratti un effetto straniante, se confrontato con la leggerezza che il film intende esprimere. Il debutto di Gerster, però, mostra pure dei limiti evidenti, alcuni comprensibili per un esordio, altri meno. Prendiamo la recitazione: decisamente sotto la media, se escludiamo il protagonista. I personaggi di Oh Boy, che devono già destreggiarsi tra dialoghi sopra le righe, risultano eccessivamente tendenti al caricaturale anche e soprattutto per via della prestazione non eccelsa degli interpreti.
Non si va insomma oltre al semplice tentativo di creare situazioni o battute brillanti: è come se Gerster calcasse la mano sull’impostazione di una sceneggiatura (pseudo)introspettiva senza però raggiungere l’obiettivo di creare un filo conduttore interessante e stimolante per chi guarda. Semmai, quest’eccessiva linearità dei confronti (fisici o parlati) che Niko sostiene, tuttavia amplifica (forse involontariamente) la sua solitudine interiore ed esteriore, rendendolo incapace di scrollarsi di dosso la condizione di dissociato rispetto alla realtà che gli gravita intorno. E a questo scopo, Tom Schilling (che tra l’altro nel 2009 ha vestito i panni di Adolf Hitler nell’adattamento cinematografico del Mein Kampf) si rivela più che idoneo. La sua figura minuta e il suo viso bello e malinconico reggono in buona parte la pellicola. Sempre in equilibrio fra leggerezza e inconsistenza, l’opera prima di Gerster in definitiva vede l’ago della bilancia pendere più verso la seconda. E proprio come il suo protagonista, Oh Boy vaga senza meta e identità, nonostante qualche attimo di dolcezza che riesce a regalare.