Sonia Caporossi, Astrazioni Verticali, 2013
Di DANIELE BELLOMI
(Con un disegno digitale di SONIA CAPOROSSI)
oikos
κογχοειδής, resti dal debriefing: l’andare concoide dell’eidetica
nel vetro che schianta, concede una frattura, replica l’acqua
vicina alle sorgenti di una luce circolare; coordinate polari
e rotative appese ai polpastrelli. la conchiglia dell’orecchio
resta tesa nello sguardo fisso, nello squarcio cranico del mare
reso nel profilo a doppia volta: with leaves, then leaving, doppia
fuga come doppio fuoco. cede ai cocci: una lezione di fisica
presa per rapidi e scheletrici dati, presto puri come l’acqua
di un cielo che raccoglie proiezioni dal gendarme – la voce
è dell’aoristo in chi decide per l’alogena dell’eco, souls ascending,
una data da distrarsi; antimateria, chirurgica della caduta –
come negazione avara e sistematica del cristallino. cambiare
quindi i tempi, le notazioni lunghe: dimora è lontananza
dalla casa, della casa che subentra, modo terminale della pietas;
sostanza morta per chi vende e intesta all’ospite, in usura
a ciò che è del rimanente. precisa, a qualche metro dalla costa
– for the sea surgery, the stone alive in my hand, the corpse abandoned –
a mano il coroner la assolve se certifica che pure è stata.
le sponde, lungo questo continuo scanalare, accennano
una propria ratio, una spirale per verbare nel pallore: andare
è un po’ mandare via il vecchio e tardo, murato; una cosa
espulsa, esplosa da se stessa. questa casa si rifugia, accetta
umile una supplica. alla fine è solo un loculo, una culla: andare
non succede – si riduce, retrocede per isole ostinate, uguali
a una congenita secchezza – alle stesse fattezze rigide dei vivi.
nostos
per iniziare, cioè senza ferire, in una nebbia illesa e spinta
nell’ombra parassita, via dal centro: unwound, dispnea esatta
di terra e poi detriti, brina innervata della specie, macchia
sommersa al vaglio del presente, taglio interno della tela
o nella frana fatta necessaria, che sa e comunica una liturgia
del gergo, che mira ed è mirata per sbagliare: non più
per sempre mancherà nel fiato, estesa nel dominio, devota,
rimasta nell’auto-immolazione del risveglio – in principio
erano arcate dentro al cardine, a forma di corteccia, poi
cataste: per una volta granature, grandine che non rimane
conservata, carico e rifiuto visti nel chiaro dello scafo;
un tempo decisivo, deciduo, cedevole. l’opera viva riapre
il raggio, ributta il nomade del mare nel mattino – le corps
marqué, comme manquant, adesso latita, riluce, tira il derma
delle piante, leviga l’onda morta della fuga, nuova pietra
nella pietra; marea, che è moenia, muraglia, corso e spasmo
resi nulli dalla spartizione dei versanti. la contraerea può
ripeterne l‘avvento: frammentazione come danza, polarità
familiare – chi esplora rinviene creta, argilla del canale.
continua a esistere se è resa replicante, permeabile, lasciando
in prova gesti e lacere estensioni, braccia propagate alla deriva:
mimica esclusiva, crollo concentrico del corpo, mutilazione
al vortice della deriva – questa casa ora devastata accenna
la sua supplica, questa casa mai finita, che respira, riparte,
preme ancora, rientra, fatta infisso; prima tessuta, prima
del mattino – spiccare piante, ίερά, traslare hiems, hiver:
l’ordigno primitivo è immesso nei cloudmaker. faranno
interdizione, danza del fumo, della pioggia, nucleo-motore
e venatura, processo cellulare dell’incanto, rimasto dove
è concavo, caduto, neuma che scava, lascia un segno arreso
nel rilascio: abbandonare i centri di raccolta, guardare
ciò che è nitido e ricade, resta e svela, prende luce,
si prostra, conserva segni di postura – chiedono i resti
dell’embed: un’insurrezione estesa, rimasta nel respiro –
lùmina, midollo, permanenza nello stadio larvale di ogni stato,
limitazione a ciò che viene deflagrato: una calotta, una terra
cava, un vuoto costante e vicendevole, lo scavo di una forma
astrale letta nell’esergo: il tutto pieno degli dèi che si frattura
in anni di distanza, il tutto sacro ed isolato che si flette, manca
l’ostracismo, il tempo-spazio riportato all’οἶκος. – ritorno:
il corpo mancato, come mancante, scocca e lascia, infetto,
poi allagato se precede una diretta, a mani chiuse, per voglia
sottile, che non si deve se non c’è, separata dallo sterno
nell’ora del giorno che interpone; il corpo marcato, come
mancante, che divide il tempo dei rientri: motore solo,
messo a freno lungo un muro, meno cavo per biologica
inserzione, portato indietro al proprio pattern, alla domanda
finalmente non rimessa: essere al completo, non avere
completezza – ritorno come schema del figlio, poi νέος,
di nuovo, ancora chiuso in cella –
(Daniele Bellomi, 2013)
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