Era necessario fare il remake del cult di Park Chan-wook?
Copia (quasi) conforme del cult firmato Park Chan-Wook, Old Boy (2013) mette da parte la follia e la brutalità per concentrarsi sulla psicologia del personaggio principale e sulla sua sete di vendetta.
Joe Doucett è un pubblicitario alcolizzato e in perenne declino. Una notte viene rapito e rinchiuso in una stanza d’albergo per vent’anni. La motivazione è sconosciuta e Joe prova a cercare nel proprio passato il nome del suo aguzzino. Nel mentre viene accusato del brutale omicidio della moglie. Una volta uscito non sfugge al ricatto del suo rapitore: scoprire l’identità di chi l’ha rinchiuso per anni..
Cosa si è perso del film originale in confronto alla pellicola diretta da Spike Lee? Innanzitutto lo spirito di castigo e ritorsione in favore di una vendetta personale e di una costruzione narrativa che si concentra principalmente sulla figura del protagonista, visto esclusivamente come una vittima. Difatti la pellicola coreana non pesava queste sensazioni, ma preferiva perpetrare una condanna che faceva parte del carattere del personaggio principale. E sicuramente non basta omaggiare esplicitamente (con diverse sequenze) il cineasta coreano. Old Boy non è Oldboy (2003) e fortunatamente. Perché una copia conforme del capolavoro del 2003 avrebbe perso in partenza e non sarebbe riuscita a eguagliare la bellezza e la brutalità dell’originale.
Tuttavia Old Boy appare apprezzabile: probabilmente perché la sceneggiatura non viene, quasi, modificata (a parte la sequenza conclusiva) e l’interpretazione di Brolin non risulta così greve. Tuttavia la domanda è una sola: se ne sentiva il bisogno? Assolutamente no ed è altrettanto facile capire le motivazioni che stanno alla base di un remake non richiesto. Laddove Park Chan-wook aveva costruito ambiguità e insensata follia, Lee ha preferito provare a chiarire, a rendere l’intera cornice narrativa un percorso finalizzato allo “spiegone” conclusivo, che rende la sceneggiatura meno oscura e brutale. Difatti dove il cineasta coreano voleva (in modo complesso) ostentare l’indefinibile natura umana, il regista statunitense ha preferito costruire una narrazione più semplicistica e abbordabile per lo spettatore seduto in sala. L’intento è chiaro: distanziarsi, giustamente, dall’originale e scostarsi dall’inevitabile confronto.
Nonostante tutto Spike Lee, caratterizzando il proprio prodotto con una regia elegante, si fa apprezzare per lo sforzo di non scadere nello spudorato scopiazzamento, preferendo il citazionismo e l’omaggio a un autore che si è fatto conoscere nel mondo per la sua capacità di mettere in scena, brillantemente, le recondite zone oscure dell’animo umano.
Uscita al cinema: 5 dicembre 2013
Voto: **1/2