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Oldboy: l’Inutilità della Vendetta

Creato il 01 luglio 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Oldboy: l’Inutilità della VendettaVendetta, tremenda vendetta. Una delle pulsioni più irrazionali dell’uomo capace di sconvolgere perfino le menti di uomini illuministici, positivisti, nichilisti ha sin dall’antichità affascinato artisti di tutto il mondo che le hanno dedicato un nutrito numero di opere. Anche il decennio appena trascorso ha visto ritornare in auge l’atavico tema e un intero filone, a volte fastidiosamente modaiolo, ha caratterizzato il cinema degli ultimi anni. Ne sono scaturiti alcuni buoni film, molti più mediocri e un autentico capolavoro che ha segnato questo decennio alquanto povero culturalmente: “Oldboy” del regista coreano Chan-wook Park. La pellicola fa parte della cosiddetta trilogia della vendetta che comprende anche “Mr. Vendetta” (2002) e “Lady Vendetta” (2005). Mi concentrerò esclusivamente su “Oldboy” perché gli altri due episodi sono dei bei film che meritano comunque la visione ma non raggiungono il perfetto sincretismo del suddetto che tanto clamore e successo ha sollevato attorno al regista coreano. Nel 2004, con la presidenza di giuria affidata a Quentin Tarantino, il lungometraggio ha infatti vinto il Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes e da allora in poi sin dal manifesto è stato distribuito con la martellante tag-line riportante una frase che Tarantino disse in sede di premiazione: «Il film sulla vendetta che avrei voluto girare».

Oldboy: l’Inutilità della Vendetta

Alcuni critici hanno spocchiosamente decretato che il successo di questa pellicola è dovuto alla peculiare cifra stilistica di Chan-wook Park, che non si distacca poi molto da quella di un qualunque autore occidentale: montaggio serrato, presenza di una violenza efferata fine a se stessa, musiche massicce, fotografia livida, finale grandguignolesco. È stato perfino accusato di furbizia per aver messo sotto vetro tutti quegli accorgimenti formali che si aspetterebbero da un autore orientale: maniacale messa in scena di un singolo frame, riflessioni filosofiche, silenzi e musiche rarefatte. Insomma, noi occidentali l’avremmo apprezzato perché trattasi di un’opera asservita a logiche nostrane, frutto di un lavoro di limatura che le ha permesso di avere quell’ampio respiro internazionale tanto cercato. Ma le sterili polemiche, si sa, sono destinate a spegnersi dopo pochi anni, tra qualche decennio solo il valore di questo film sarà ricordato. Tratto dal manga omonimo di Tsuchiya Garon, disegnato dalla felice mano di Minegishi Nobuaki il film è un libero riarrangiamento del misconosciuto fumetto giapponese. Del filone orientale degli ultimi anni, alla strenua ricerca della violazione del limite di violenza mai apparso sugli schermi, come accennato, “Oldboy” ha l’estrema brutalità della messa in scena di alcuni segmenti, senza per questo cadere nel vuoto splatterismo di tanti suoi contemporanei.

Oldboy: l’Inutilità della Vendetta

Tra polipi mangiati vivi, denti cavati e lingue mozzate scorre infatti precisa e inquadrata una linea narrativa di grande impatto, e di indubbia maturità per un regista che all’epoca aveva quarantun’anni. Chan-wook Park tratta il suo pubblico con molto rispetto, evitando le ovvietà e le ripetizioni che tanto cinema italiano e americano instilla dentro le sue pellicole destinate ormai prettamente a un pubblico giovane: la storia non è lineare, sono presenti alcune ellissi facilmente colmabili da uno spettatore attento e la risoluzione finale giunge alquanto inaspettata. La regia risulta attenta ed eclettica, sia nella scelta del montaggio che nell’azzeccata colonna sonora: tra grandangoli, traiettorie di martelli destinate alla testa di un malcapitato (scena attinta da tanta cultura anime), sorvegliati dolly, almeno una scena è entrata, a ragione, nell’iconografia cinematografica odierna. Mi riferisco al celebre carrello della lotta di Dae-su contro una trentina di sgherri lungo un claustrofobico e livido corridoio che dà vita a un mix esemplare tra realismo, incisività musicale, fotografia malsana, tecnica registica, talento autoriale. Un uomo solo contro tutti, anche contro sé stesso, disperato, accecato dalla sete di vendetta per un’azione che non ricorda di aver commesso. “Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anche io il diritto di vivere?” è il tormentato leitmotiv che ricorre più volte all’interno della storia.

Oldboy: l’Inutilità della Vendetta

Essere rinchiuso in una prigione per quindici anni, senza mai lo straccio di una spiegazione, sbagliata che sia: questo è il pensiero che affligge Dae-su. “In quindici anni perfino le rughe sul volto del quadro sono aumentate” nota tristemente lui stesso. Accompagnato dalla sola presenza di una televisione disturbante nella quotidianità plastica che offre in Corea come in Italia a lobotomizzati spettatori, il beone Dae-su si accorge di aver vissuto una vita molto peggiore di quello che credeva quando cerca di indagare sui suoi potenziali nemici. Improvvisamente viene liberato e Chan-wook Park ha facile gioco nel dipanare tutti gli accorgimenti tipici del noir: il protagonista turbina in una girandola di indizi, nemici e false piste. Il regista è però volenteroso di dare il proprio tocco personale e inserisce frammenti poetici (la scena della gigantesca formica nella metro come simbolo della solitudine) o squarci ironici (Dae-su con la cuffietta da donna dalla parrucchiera) che stemperano solo occasionalmente il tono cupo della vicenda. Ma Dae-su compierà il più madornale degli errori: non si fermerà mai a riflettere sui vantaggi derivanti dall’ottenimento della vendetta. Divorare anche solo un pezzo del carceriere Woo-jin (qualora ci riuscisse) non gli darà indietro nemmeno un minuto dei quindici anni di prigionia insensata.

Oldboy: l’Inutilità della Vendetta

Ormai egli è un mostro, altro che conte di Montecristo (doveroso anche se banale l’omaggio resogli durante il film), bestiale nella caparbietà che tutto abbatte. Accanto a lui ha la sola fortuna di trovare Mi-do, giovane e ingenua ragazza che così passivamente si innamora di lui. E dopo crudeli faccia a faccia giunge lo scontro finale e la scoperta della terribile verità, annunciata in un modo cinematografico così emozionante da lasciare senza fiato chi si era lasciato travolgere dalla storia. Non rovino la sorpresa a chi avesse intenzione di guardare la pellicola. Ciò che frastorna di questa discesa negli inferi è la riuscita parabola dell’inutilità della vendetta. Nessuno dei protagonisti ne uscirà salvo, nemmeno l’ipnosi riuscirà a far dimenticare a Dae-su la terribile verità. Il beffardo primo piano che chiude l’opera, con quel sorriso che si trasforma in una smorfia di dolore, funziona più di tanti bei saggi morali: la giustizia non si trova con la vendetta. Sostanza e forma di elevatissima resa per un film che è presto diventato un must-cult da guardare assolutamente.


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