“Oliver Twist” è un romanzo scritto da Charles Dickens, che fu edito, in prima edizione a puntate mensili, sulla rivista “Bentley’s Miscellany”“, fra il 1837 e il 1839.
Charles Dickens non scrisse romanzi, li mise al mondo, come figli immortali, eroi concepiti con l’eternità.
Non creò personaggi da ricordare per sempre, consegnò loro le chiavi per dischiudere la segregazione imposta dalla carta, ed essere se stessi, oltre il tempo e lo spazio.
Oliver Twist, dunque, non lo si legge, lo si incontra e lo si insegue, nel suo “trotterellare” lungo vie su cui si proiettano edifici fatiscenti, celle sudice, strade gelide di campagna, tribunali di legno simili a bare di lusso, calde coltri e morbidi guanciali, ampie vetrate e sedute di velluto.
È la storia di un bambino nato in un ospizio parrocchiale nella gelida campagna inglese nella prima metà dell’Ottocento, i cui vagiti sono seguiti dai rantoli di morte della madre e dal furto dei suoi unici averi. Così la lunga avventura ha inizio, nel freddo della coscienza e della misericordia.
Lo stile, inconfondibile ed inimitabile, che mixa cinica ironia e puro sentimentalismo, funeree atmosfere noir e coraggiose condanne sociali, regala, al termine della narrazione un lieto fine.
“Oliver Twist”, tuttavia, è un romanzo atipico, picaresco e di formazione al contempo, in quanto tutte le vicende si snodano nel tentativo di corruzione dell’animo di un bambino, ma è soprattutto erede del percorso iniziatico proprio della fiaba, i cui meccanismi riportano a Propp, quale lotta epica fra protagonista ed antagonisti, che si conclude con la vittoria del bene, grazie all’ausilio di aiutanti e benefattori.
Non c’è magia, però, in questa pseudo fiaba.
A compensarne l’assenza, interviene l’agnizione, ossia il provvidenziale riconoscimento dell’identità reale di un personaggio, di solito un orfano o un poverello. Questo topos ci porta indietro, fino al teatro di Plauto, quando un Deus ex machina ristabiliva l’ordine e decretava il lieto fine, talvolta, come nel siffatto caso, con un oggetto simbolo, che, etimologicamente, indica proprio una sorta di tessera di identificazione.
Eppure, l’epilogo della storia di Oliver Twist, l’eroe vincente, è velato di tristezza: è un velo nero di lutto, mosso da un vento che solleva le polveri di chi non c’è più.
È una fiaba dal retrogusto amaro.
“… ed ecco l’ospizio, la squallida prigione della sua infanzia, con le lugubri finestre che sembrano fissare accigliate la strada e lo stesso scheletrico portinaio in piedi davanti all’ingresso. Scorgendolo, Oliver si fece piccolo, involontariamente, poi rise di se stesso per essere stato così sciocco, quindi pianse, rise di nuovo… ed ecco, sulle porte, e alle finestre, decine di volti che ricordava benissimo… tutto continuava ad essere quasi identico, come se si fosse allontanato da lì appena il giorno prima e tutta la sua vita recente fosse stata soltanto un bel sogno”.
Written by Emma Fenu