Le colpe impudiche
Di METH SAMBIASE
Foto di Antonella Monzoni
È il giorno contro la violenza sulle donne. Da vari anni, nel calendario italiano ed occidentale in genere, si stanno intensificando le orazioni celebrative dedicate ai pro o ai contro, alla memoria, alla salute, etc. Caviamo allora dall’almanacco di oggi, il giorno contro la violenza sulle donne, ma allontanandoci dalla geografia dei dati e dei convegni, che addensano questa data ma non la rivoluzionano, non sventrano i motivi della violenza rivoluzionando il dato “certo” per cominciare a ricercare le “cure certe”. Quindi, il limite di questo giorno, e di molti altri di questi giorni, è nell’accettare la natura del male, sensibilizzandosi nello sdegno o nel compiacimento dell’andamento dei vari insiemi grafici, ma lasciando inespressa la soluzione.
La stratificazione millenaria della non colpevolezza maschile per lo stupro e per l’uso sistematico della violenza , beneficia generosamente dell’ immunità morale – quella stessa che fino a qualche spicciolo di tempo fa in questo Paese così pietoso di professione aveva nel codice il delitto d’onore – che finisce per impedire una rivoluzione legislativa e sociologica che imponga e definisca un’identità sessuale senza né vittime né carnefici giustificati. È nella continuità della visione debole della donna che nascono le variabili e croniche giustificazioni naturali\fisiologiche\morali\razziali\ sulla “naturalezza dell’esigenza” di predare da parte di non bene identificati maschi alfa una donna, femmina omega ma anche femmina zeta , se l’analfetizzazione di ritorno di questi tempi non consente di riconoscere l’omega-fine del mondo. È colpa del patriarcato, rispondono da alcune parti, anche dei movimenti femministi; è stato il patriarcato ad impedire di capovolgere la concessione “laica” della predazione della donna nel suo “naturale” opposto, il sacro tabù dell’inviolabilità. Patriarcato? Patriarca\il padre che vuole sapere di chi è\figlio che deve assomigliare al padre non solo alla \madre che alla fin fine è solo un’intercambiabile\donna. Non è così illogica la concatenazione.
Ma è un falso. Non è stato il patriarcato. È stato ancor prima della distinzione aristotelica tra uomini schiavi e donne, pensiero greco, pensiero genesi della filosofia occidentale. Sarà cominciato con la distribuzione della divinità nei simulacri delle statue? Sin, la Luna padre del tempio, Shamash, il Sole giudice del cielo e della terra, sono ugualmente uomini nella prima mitologia che ha lasciato tracce archeologiche, mentre la regina della terra, Ishtar è l’unica donna del pantheon semita. Nel suo tempio, vi erano due gradi di secerdotesse, le cosiddette “sgualdrine del tempio”, Qadischtu o Harimtu le sacre prostitute. Il sacro, riferimento per la costruzione del divieto, del tabù, viene quindi associato a cosa? alla prostituzione necessaria perché lo vuole da dea. Ti penetro in nome di quanto è più sacro, come potrebbe essere questo un tabù? È patriarcato? (un dettaglio specifico: non c’è concetto di proprietà privata come inviterebbe la sociologia del patriarcato).
Ergo non possono non essere consenzienti, le donne, non possono rifiutarsi, è sacrilegio. È fatta. Si continua a porre strati. La grande meretrice dell’Apocalisse seduta sulla bestia a sette teste (sette falli? numero perfetto?), “La donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione” (Giovanni, 3:20). Indurre alla fornicazione: non è stato l’uomo che ha fornicato ma la donna che ha indotto alla fornicazione. La portata rivoluzionaria – per questa parte di civiltà occidentale – del messaggio evangelico, si arena subito, modificandosi sulla morale. Si può rispettare il corpo della donna a patto che essa sia in una convenzione, sia dall’indubbia morale: ipotizziamo: paziente rinunciataria, obbediente, passiva. Merce inutile, tutto sommato, roba di poco conto.
L’ultima santa popolare è una bimbetta massacrata che “perdona” il suo assassino, Maria Goretti. Chiediamoci quale uomo massacrato e sodomizzato avrebbe perdonato il suo assassino. Niente di niente anche dalla Rivoluzione laica per eccellenza, quella delle idee illuminate, che transita e non passa sulle donne, “Jean-Jacques Rousseau, per certi versi filosofo della Rivoluzione, vedeva uomini e donne come creature separate, con diritti differenti” (H. C. Mansfield). Ma le rivoluzioni, seppur borghesi e maschili, non sono mai controllabili. Ed ecco, finalmente, una contestazione. A Rousseau risponde Mary Wollstonecraft, con il suo libro La rivendicazione dei diritti delle donne (1792). Passionale, ardente, propositivo. È cominciato il femminismo? Si, a ben vedere, finalmente. Ma le prime femministe (la citata Wollstonecraft ed Elisabeth Stanton) non si pongono il problema della violenza alle donne. Hanno la condizione femminile da dibattere, e la risolvono con la moralità. Anche la differenziazione tanto cara alla Beauvoir tra trascendenza (il crearsi) e l’immanenza (l’essere frutto della creazione degli altri) non regge interesse per la modifica delle regole del maschio alfa contro la violenza sulle donne. “Il secondo sesso” è un libro che con generosità d’idee e con coraggio, trascende la forma dell’iconografia femminile, ma è concentrato sul sesso.
“Come si può conquistare l’indipendenza dal sesso? vi chiederete. La Beauvoir pensa che sia la passività della donna nell’atto sessuale a renderla un oggetto erotico per gli uomini e anche per se stessa, impedendole così di diventare un soggetto indipendente. È quindi nel sesso, e non nella debolezza delle donne o nell’aggressività degli uomini (quasi mai nominata dalla Beauvoir) che l’autrice individua la causa principale dell’oppressione femminile” (H.C. Mansfield). Della grande triade di intellettuali femministe degli anni della “rivoluzione sessuale degli anni ‘Sessanta” in poi, Betty Friedman, Kate Millet e Shulamith Firestone, non arriva nemmeno qui una preoccupazione né ai maltrattamenti fisici né alla violenza sessuale È sotto esame la costruzione di una nuova identità femminile – si potrebbe obiettare – quindi si lasciano indietro porzioni di vita sociale che tutto sommato non toccano l’”insieme” delle donne, ma sono episodi isolati, sebbene cronicizzati. L’oppressione ha quindi due volti distinti? E in quale fascia d’attenzione si pone la differenziazione fra oppressione sociale e oppressione fisica? Sarebbe interessante lasciare i luoghi sociologici e ripartire da quelli corporali, il corpo sociale è un ossimoro, una definizione tanto vuota quanto piena di ogni pre-giudizio? Se indubbio sia il risultato di un peso maschile contro uno femminile sulla bilancia della forza fisica, la tara è nello scarto della giustificazione storiografica. Tagliare, troncare, sconsacrare quel pensiero “naturale” è il netto, la finalità del nuovo contro la coabitazione imposta della violenza.
La Comunità Europea, nel 2000, in un rapporto (Rompere il silenzio) cita a proposito della violenza domestica “che essa è il sintomo più evidente dello squilibrio di poteri nel rapporto tra uomini e donne”. Trattandosi di linguaggio squisitamente politico, la nuova struttura della “comprensione e spiegazione” della violenza, diventa squilibrio di potere. Da pochi anni, ricordiamo, è nato un neologismo, femminicidio. Farà strada, è una nuova forma di “comprensione” per definire la natura del male. Anche il fenomeno delle Indignate è di natura politica, sebbene sia immesso nei lavori intellettuali per ridare dignità all’immagine della donna fuori dai nuovi ridicoli stereotipi del consumismo globale, che fanno leva sicura su quella immagine intercambiabile di sacra offerta. Fra i lavori in corso, quello di Loredana Lipperini, che nel suo libro “Ancora dalla parte delle bambine”, pone il problema anche dell’insufficiente attenzione verso la protezione dell’adolescenza da parte di una certa, incomprensibile, maternità che ha sposato appieno i valori dell’apparenza e del post-consumismo. Ancora oggi, il blog della giornalista è seguitissimo e fonte di spunti critici, ma la cifra sull’autodeterminazione sessuale della donna è fuorviante dalla domanda di cambiamento che in questo giorno si scrive. Sebbene una parte del nuovo femminismo americano abbia nuovamente preso la strada verso esso, dal quel valore “bellezza uguale desiderio” che Naomi Wolf, aveva messo a fuoco nel suo libro “Il mito della bellezza”, in cui spiegava che la bellezza è un mito imposto alle donne dagli uomini, e le donne ne sono ossessionate. Punto a suo favore: è vero. La Wolf, appena l’anno scorso, ha subito pesanti attacchi dalle femministe americane per il suo ultimo libro, “voci critiche mi accusano di essenzialismo – si difende la scrittrice – per aver ricacciato il genere del corpo.
Una certa corrente ortodossa del pensiero femminista contemporanea sostiene che il genere sia sempre, ovunque e comunque “socialmente costruito”, vale a dire esistente solo negli schemi mentali o nei comportamenti mentali”. Se i comportamenti mentali derivati da schemi mentali sono ancora inattaccati, se l’abuso di un genere (e qui si ritorna allo schema della Beauvoir) resta annesso nella concessione storica perché anche l’ortodossia femminista si frantuma nel suo potenziale rivoluzionario, allora è facile credere che questo giorno contro la violenza della donna, lo metteranno nel calendario fino alla fine dei tempi.
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