Il Jobs Act è il motore che ha fatto ripartire l’occupazione oppure è stato soltanto un buco nell’acqua? Ad ogni pubblicazione di nuovi dati statistici dell’ISTAT, dell’INPS o del Ministero del Lavoro, rimbalzano le polemiche tra parti sociali, mondo politico e addetti ai lavori.
Il confronto spesso è caratterizzato da posizioni preconcette: da un lato vi sono i sostenitori della riforma del lavoro voluta dal Governo Renzi, che ne sottolineano gli effetti sulla diminuzione della disoccupazione e sulla crescita dell’occupazione, dall’altro coloro ci sono coloro che hanno un’opinione critica del Jobs Act, i quali sottolineano il mancato impulso dello stesso al miglioramento del quadro occupazionale.
Il 2015 ha segnato una lieve ripresa economica, accompagnata da una altrettanto tenue diminuzione del tasso di disoccupazione e da alcuni segnali di crescita del tasso di occupazione. Stabilire in quale misura tali miglioramenti siano attribuibili al Jobs Act è materia complessa e forse inestricabile: i fenomeni economici sono determinati da molteplici componenti, e oggettivamente non è semplice affermare con certezza se, in assenza della riforma del lavoro del Governo Renzi, il quadro occupazionale sarebbe migliorato o peggiorato; e forse tale attardarsi in tale valutazione non ha, attualmente, nemmeno grande utilità.
D’altra parte, la regolazione del mercato del lavoro dovrebbe avere quale finalità principale quella di facilitare l’incontro tra lavoratori e aziende attraverso la realizzazione di servizi per il lavoro efficaci, un sistema contrattuale che tuteli i lavoratori senza divenire eccessivamente rigido e adeguati percorsi di transizione tra scuola e lavoro. Sono tutti elementi fondamentali, ma che soli non possono determinare una crescita occupazionale consistente e continua nel tempo, essendo quest’ultima un fattore che dipende principalmente dalla crescita economica. Anche per questo motivo è sbagliato valutare i risultati del Jobs Act esclusivamente in un arco temporale ristretto: gli obiettivi perseguiti attraverso una riforma del mercato lavoro dovrebbero avere un orizzonte temporale ben più ampio di quello limitato a pochi mesi. Evidentemente ciò non significa che non sia necessario individuare i limiti della riforma, ma bensì dovrebbe indurre a spostare l’attenzione su quelli che sono gli elementi immediatamente valutabili e su cui sarebbe possibile intervenire, a iniziare dalle politiche attive del lavoro.
A tale proposito, è necessario ricordare come il problema fondamentale del nostro paese riguarda non
tanto l’alto tasso di disoccupazione, ma il basso tasso di occupazione. Tale fenomeno è in buona parte determinato dalla presenza di un’alta percentuale di lavoratori inattivi: in altre parole, vi è un elevato numero di persone in età attiva che rinunciano alla ricerca attiva del lavoro, per differenti motivi (famigliari, di studio, pensione, ecc.). Tra questi ultimi, meritano una specifica attenzione i lavoratori scoraggiati, ossia coloro che ritengono di non riuscire a trovare un lavoro, e per questo motivo non sono attivamente impegnati nella ricerca. È un fenomeno tipicamente italiano, che consegna al nostro paese un dato di profonda anomalia rispetto alle principali economie europee, sul quale nemmeno il Jobs Act è intervenuto in modo netto: in particolare, non sono stati ancora emanati i decreti attuativi che dovranno regolare la gestione delle politiche attive, definendo operativamente le competenze dell’ANPAL e dei centri per l’impiego.I lavoratori che non usufruiscono dei servizi offerti dai centri per l’impiego pubblici sono attualmente la grande maggioranza: oltre ai lavoratori inattivi scoraggiati, vi sono anche coloro i quali – pur essendo impegnati nella ricerca di un’occupazione – non si rivolgono ai CpI e non sottoscrivono la loro dichiarazione di disponibilità (perché lo status di inoccupato o disoccupato sia sancito, è necessario recarsi fisicamente presso un Centro per l'impiego e richiedere l'iscrizione alle relative liste), rimanendo in tale modo in una zona d’ombra, formalmente non disoccupata e non alla ricerca di lavoro, ma in realtà semplicemente non censita a causa della difficoltà dei servizi pubblici per l’impiego di “intercettare” tutte le persone in cerca di lavoro e di offrirli servizi adeguati.
L’incapacità di far divenire i senza lavoro – nella loro accezione più ampia, che comprende sia i disoccupati sia gli inattivi sfiduciati – utenti dei CpI ha due conseguenze: da un lato l’incapacità di offrire i necessari interventi di politica attiva del lavoro, dall’altra l’impossibilità di censire, e quindi analizzare e capire le reali dimensioni e caratteristiche dei senza lavoro (a loro volta, elementi che dovrebbero essere fondamentali per definire efficaci politiche attive).
Qui sta il vero fallimento delle politiche attive del lavoro, e questo è l’ambito sul quale occorre intervenire con maggiore urgenza, a partire dall’individuazione delle principali categorie di lavoratori interessati, realizzando pienamente quanto promesso nel Jobs Act, ossia la piena integrazione tra gestione dei sussidi di disoccupazione e politiche attive del lavoro, realizzando una sinergia che dia davvero ai lavoratori concrete possibilità di ricollocazione.
Gianluca Meloni