- la famiglia: in Dupa dealuri (2012) il nucleo famigliare così come lo si intende non esiste, è al massimo riscrittura, ma di figli e corrispettivi genitori Mungiu non parla. Infatti dentro la pellicola convivono situazioni sbilenche, aggregazioni autodefinitesi “famiglia”, appropriazioni di ruoli che suonano artificiali; il monastero è modello di tutto ciò: un luogo isolato dove le due figure più anziane hanno assunto le identità di padre e madre pur non essendo tali, la falsità di questo gelido ambiente è prontamente colta da Alina, elemento esterno inconciliabile, che a sua volta è per Mungiu emblema dell’a-famigliarià: come Voichita la ragazza è cresciuta in un orfanotrofio e non ha mai conosciuto chi l’ha messa al mondo. Se poi si aggiungono altri particolari inerenti all’argomento, si prenda in esame la famiglia adottiva di Alina che non ha mancato di sostituirla prontamente con un’altra “figlia” (e non va escluso che tale spodestamento possa aver inciso sulla salute della giovane) o la suora che non desidera tornare col marito perché già perso un figlio non vuole rischiare di precipitare nuovamente nel medesimo dramma, il quadro si colora in siffatti modi ed anche pensando allo scambio di battute tra i due poliziotti del finale (“un tizio ha ucciso la madre e ha messo la foto su Internet”) non pare possa esserci una svolta positiva. Per capire come mai Mungiu abbia spinto così tanto su questo tema, cosa in buona parte già avvenuta con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007), si potrebbe ricorrere alle spiegazioni “politiche” che connotano i registi della nuova scuola rumena, qui, per non risultare stucchevoli data la già avvenuta trattazione della questione, non si andrà oltre l’accenno appena fatto, che ci si fermi alla constatazione, tanto basta.
- la religione: più sovraesposto dell’oggetto precedente, quello religioso è un discorso che foraggia continuamente (forse perfino in eccesso) il film; l’inserimento di un corpo alieno all’interno del sistema rivela il pensiero della comunità, il suo credo, ne mette in luce l’irregolarità, le degenerazioni aberranti e lo spirito integralista. Nel raffronto con ulteriori sistemi l’opera trova i suoi momenti migliori, quando l’oltranzismo monacale viene messo alla berlina dalla dottoressa nell’ospedale o dalle incalzanti domande delle autorità, la posizione di Mungiu si fa super partes, senza altezzosità la sua è cronaca dei fatti, delle persone, degli animi: si scoperchiano questioni etiche che silenziosamente divengono substrato edificante, in fondo si può tranquillamente portare la vicenda sotto l’eterna controversia assolutismo vs. relativismo escludendo a visione avvenuta uno schieramento da parte del regista. Che anche il monastero e i suoi metodi fondamentalisti possano essere visti come la trasposizione di un regime totalitario è un’idea che personalmente mi sono fatto solo che leggendo la trama, volendo è riscontrabile, sicuramente non è indispensabile adoperarsi nel rintracciare tale parallelo.
Il punto (con spoiler):
il sacrificio: il cuore pulsante del film è equiparabile a quello di 4 luni, 3 saptamâni si 2 zile, nuovamente ci sono due donne al centro dell’attenzione e nuovamente ciò che le unisce (o che almeno unisce una all’altra) è un sentimento fortissimo (oso dire quasi irreale vista la tragicità delle circostanze e il non corrispettivo approfondimento) impermeabile al nubifragio di dolore piovutogli addosso. Il comportamento di Alina che via via squaderna sempre più la profondità del proprio sentimento (d’altronde avrebbe potuto scappare in qualsiasi momento dal monastero), assume nelle battute conclusive il profilo del sacrificio, né più né meno di quanto accadeva nel film precedente, e Mungiu, per rimarcare l’immolazione, sceglie l’immagine potente ed ovviamente evocativa di una crocifissione; il sacrificio dunque si compie ma al pari della pellicola del 2007 il martirio appare vano, Voichita è come se non si rendesse conto di come l’amore nei suoi confronti abbia portato alla morte Alina, non c’è un vero pentimento (l’auto-consegna nelle mani della polizia sembra una conseguenza della remissività del padre) e nemmeno un “lavaggio” della propria coscienza (sul camioncino la sentiremo dire che non ha paura perché Dio è sempre nel suo cuore), l’unico gesto degno di nota che la giovane suora compie è quello di indossare il maglione dell’amica, una sorta di svestizione monastica che avviene comunque soltanto in superficie.
Gli appunti:
rapidamente un paio di cosette che al sottoscritto non hanno fatto impazzire; è vero che nel suo insieme il film funziona, però se si vuol mettere la pulce nell’orecchio a Mungiu ho trovato fumose le sceneggiate isteriche di Alina a cui mancano dei presupposti realmente convincenti (c’è anche il parere dell’anziano dottore che lascia perplessità), cioè, è chiaro che sono poste lì per enucleare il dramma personale vissuto dalla ragazza in un contesto squinternato, tuttavia il clan ortodosso almeno inizialmente non si macchia di azioni così gravi da scatenare crisi così forti, prova ne è che a prescindere dalla cocciutaggine religiosa il monastero non è un convento di clausura, si può entrare ed uscire a piacimento e non ci sono distinzioni di sesso. Sulla devota ostinazione c’è da dire che si ripresentano durante i 150 minuti di proiezione certe ripetizioni alla lunga stucchevoli, le continue affermazioni su Dio e compagnia bella riveleranno anche il cieco indottrinamento del gruppo, ma mostrano parimenti una stanchezza verbale non da poco. Parlando di ripetizioni va denunciata la tendenza più volte (troppe volte) riproposta dello stesso schema: momento di calma (di preghiera, di attività quotidiana) ed improvvisa irruzione di una suora che affannosamente dice alle compagne di come Alina stia dando di matto, e via tutte in massa a guardare la scena. E non va scordato, infine, che un doppiaggio, a prescindere dalla sua qualità, ingessa terribilmente la naturalezza dello scorrere dialogico, cosa che qui si ha la percezione che accada.