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Il libro è diviso in cinque parti. Le prime quattro, ciascuna relativa a un decennio di attività, sono introdotte da quadri cronologici e riassunte da un verso significativo che funge a sua volta da titolo (I. 1936-45 "Oh but the unloved have had power”; II. 1946-55 “This region of sin that you find you in, But are not of”; III. 1956-65 “All a poet can do today is warn”; IV. 1966-76 “My mind beats on”) e nell’insieme raccolgono in tutto centotre testi numerati. Nella quinta e ultima parte del libro sono riportati rapidi schizzi d’occasione dell’autore su composizioni proprie e altrui: sebbene la frequenza con cui i nomi vi compaiono corrisponda grosso modo alla misura della loro reperibilità nel resto del libro, queste note danno un’immagine parziale e meno precisa delle opinioni di Britten, che invece ha bisogno del suo spazio per sviluppare e argomentare le proprie idee. Per conoscere il parere su un determinato autore o argomento è allora di maggior aiuto una ricerca sistematica sugli ordinati e preziosissimi indici analitici (uno sulle opere dell’autore e un secondo su nomi di cose, luoghi e persone notevoli), sebbene la prosa semplice e concreta, sincera nei giudizi e piena di garbo, ripaghi di più chi abbia la pazienza di seguire il percorso stabilito dall’editore.
Britten, riluttante a esporsi senza essere per questo reticente sul suo operato, di cui parla come farebbe un qualsiasi artigiano, si rivolge con naturalezza tanto a problemi sociali quanto a quelli tecnici, facendo anche esempi concreti sulla grammatica e la semantica della comunicazione musicale. Il musicista sottolinea sempre la sua necessità di lavorare per circostanze e committenti determinati e, in sostanza, in vista di un’esecuzione precisa. Ciò spiega da un lato l’estrema ricchezza del catalogo di Britten, che si dimostra molto aperto al confronto nel dialogo con tradizioni e biografie diversissime dalla sua, e dall’altro le preferenze per determinati organici che gli si rivelano più intraprendenti e fiduciosi rispetto alla nuova musica, in particolare le orchestre d’archi e i cantanti. L’intera produzione viene così illuminata, anche nei suoi angoli meno noti, da questo interscambio con una società in fermento politico e sociale, rispetto alla quale dunque Britten si guarda bene dall’estraniarsi: la musica per bambini, quasi tutta a carattere didattico e religioso, e perfino opere più discusse come Paul Bunyan e Gloriana vengono recuperate in quest’ottica non meno della produzione teatrale dedicata a Peter Pears o a singoli interpreti d’eccezione come Kathleen Ferrier. Il compositore si presenta in ogni contesto cercando di portare quello di cui avverte la necessità e proprio in forza di ciò trova la misura del suo successo che consiste in un contatto autentico con il pubblico.
Britten sostiene, non solo tra le righe, di essere un musicista puro, di non amare la parola per esprimersi, definendola con il proprio dignitoso riserbo un territorio a lui sostanzialmente estraneo, poiché sente il suo mestiere come «un fare e non un parlare»; la chiarezza teorica del suo agire musicale non ha avuto ricadute sul piano programmatico in termini di manifesti e nemmeno la critica, a suo dire, gli è affine, o quanto meno si interroga a più riprese sul suo senso e sulla natura dei suoi obiettivi. D’altra parte il compositore non si chiude in un silenzio riguardo al presente e al passato musicale, né lesina riferimenti espliciti alla linea seguita. Nomina anzi volentieri, in più occasioni, il «maestro» Frank Bridge, l’amato Stravinsky (discusso d’altra parte per la sua vis polemica) e l’amico – ammiratissimo – Shostakovic tra i contemporanei, ma anche Bartók e Poulenc, la seconda Scuola di Vienna, per scendere fino a Verdi, a Mozart, a Bach e all’immancabile, e prevedibile, Purcell, che segna la parentesi aperta di una tradizione musicale, qual è quella inglese, altrimenti per lo più ignorata, a dispetto della gloriosa tradizione elisabettiana di corte. Colpiscono invece alcune assenze, come il silenzio assoluto su Prokof’ev o, ancor più, su quel Kurt Weill che aveva preceduto Britten proprio sullo stesso progetto, la ripresa moderna di The Beggars’ Opera di John Gay.
La pubblicazione di questo bel volume da leggere con ordine o da consultare a piacere si colloca a buon diritto come libro-base di una bibliografia, non per forza specialistica, sul musicista: i riferimenti a colleghi e interpreti, le note e le riflessioni personali sono interessanti a ogni livello. Spesso anzi la sensibilità e la cultura che ne traspaiono gettano un ponte con diverse manifestazioni artistiche: il teatro, ma anche la letteratura, nelle prospettive più ampie, e la pittura. In una prospettiva allargata risulta dunque non solo utile ma davvero eccellente l’apparato critico posto in calce a ogni testo, che, oltre a riportare informazioni sulla fonte originaria e sulle opere cui l’autore si riferisce (altrimenti talvolta difficili da individuare), cita articoli o interventi di musicisti e artisti diversi, dando allo scritto un respiro più ampio e, insieme, significati più precisi. Duole soltanto che, in questo scavo appassionato negli archivi della Britten-Pears Library, non sia stato possibile rendere pubbliche altre immagini: sono solo sei le fotografie presenti, un paio delle quali per di più molto note e una addirittura relativa alla locandina della prima londinese della Lady Macbeth di Shostakovic, opera che Britten adorava, ma in cui non era neanche coinvolto come interprete.
A differenza della recensione relativa a Properzio, questa su Benjamin Britten ha trovato favorevole e direi entusiasta accoglienza su rivista: la pubblicazione è avvenuta su «Drammaturgia musicale e altri studi», fascicolo 2, inverno 2004 (Palermo).
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