Il sogno d’incontrare John Lennon nella Spagna in pieno regime franchista
Attraverso la figura del professor Antonio che insegna inglese con i testi dei Fab Four il film di David Trueba - La vita è facile ad occhi chiusi - parla delle attese di libertà in una società grigia e bigottadi Gaetano ValliniA uno che pensa che «una canzone può salvarti la vita», vivere nella Spagna in pieno regime franchista e ascoltare le canzoni dei Beatles magari la vita non la salva, ma forse può renderla un pochino meno grama e triste. Ed è quello che sperimenta Antonio, professore in un collegio cattolico di Albacete, talmente appassionato dei Fab Four da insegnare l’inglese ai suoi alunni utilizzando i testi delle loro canzoni. Così quando viene a sapere che John Lennon, icona di ciò che viene visto come libero, anticonformista e moderno, è ad Almería, in Andalusia, per girare il film How I Won the War— siamo nel 1966 — decide di andare a incontrarlo. L’obiettivo è tanto semplice quanto apparentemente bizzarro: vuole che il suo idolo riveda le traduzioni dei testi da lui trascritti e ne corregga gli errori. Messosi in viaggio, lungo la strada il professore s’imbatte in due giovani che fanno autostop, in Spagna allora illegale, e li prende a bordo. La prima è Belén, una ragazza incinta fuggita dall’istituto in cui era stata rinchiusa dai genitori per nascondere la vergogna di una maternità senza marito. Il secondo è Juanjo, un sedicenne scappato da casa perché non sopporta più l’ottusa rigidità del padre poliziotto. Insieme a loro Antonio cercherà di realizzare il suo sogno. È la trama, tratta da una storia vera, di La vita è facile ad occhi chiusi, delizioso film del regista David Trueba, che lo scorso anno in patria ha fatto man bassa di premi Goya, e che è ancora possibile trovare in alcune sale italiane, poche per la verità. E vale la pena cercarlo, perché questo lavoro — il cui titolo è preso dal bellissimo verso Living is easy with eyes closed di Strawberry Fields Forever, una canzone dei Beatles scritta da Lennon — racconta con delicata nitidezza, alludendo senza dover mostrare troppo, il clima soffocante nella Spagna di Franco. Ma parla anche delle attese di una parte della popolazione in una società grigia, bigotta e contraddittoria in cui gli adulti e gli anziani sembravano ancora condizionati dalla guerra civile, mentre i giovani desideravano più libertà. Una società dove era davvero più facile, sicuramente più comodo, tenere gli occhi chiusi per non vedere quello che non andava, i compromessi e le ingiustizie quotidiane, piccole e grandi, dagli schiaffi rifilati dal sacerdote direttore del collegio agli alunni più vivaci, alle reazioni violente della polizia contro ogni tentativo di opposizione e ogni manifestazione considerata sovversiva. Come i due concerti che i Beatles tennero in Spagna, a Madrid e a Barcellona il 2 e 3 luglio 1965, ai quali c’erano quasi più agenti in borghese che fan.Il vitale e, nonostante tutto, entusiasta Antonio — interpretato con bravura da Javier Cámara — incarna la figura dell’intellettuale medio, ben consapevole di quanto accade e che cerca di liberarsi dalla cappa pesante della dittatura con una personale ribellione, sostanzialmente intellettuale. Nei testi delle canzoni dei Beatles vede un messaggio in grado di sovvertire ciò che è sbagliato, di riaccendere nelle coscienze assopite la scintilla del riscatto. E Lennon, il più creativo e ribelle della band di Liverpool, è dei quattro il personaggio che più incarna quel messaggio, che il professore cerca di far passare anche ai suoi alunni. Così quando Lennon arriva in Spagna in piena crisi esistenziale — stressato dalle tournée e dalla straripante beatlemania, con il matrimonio in crisi — Antonio vede nell’improbabile incontro non la possibilità eccezionale di avvicinare uno degli idoli del momento, ma l’opportunità di uno scambio di idee.Ma se questo è il filo conduttore di un film che anche un implicito omaggio ai Beatles, la sceneggiatura non trascura certo gli altri due personaggi della storia, Belén e Juanjo, interpretati da Natalia de Molina e Francesc Colomer. Sia pure in modo differente, entrambi si oppongono a un sistema prevaricante e alla frustrazione di vedere il proprio destino nelle mani di altri. Sono due solitudini che si aggiungono a quella meno arrendevole di Antonio, tutte intenzionate però a trovare una via di uscita. E nella loro si rispecchia la ribellione di tante persone anonime che in quegli anni contribuirono dal basso al cambiamento della società spagnola.Più rassegnata l’esistenza di altri personaggi minori, ma non meno significativi. Come la madre di Juanjo, che manifesta il disappunto per l’esasperante autoritarismo del marito attraverso un’accondiscendente tenerezza verso il figlio. O come il titolare del bar, Ramón, un catalano repubblicano rifugiatosi nell’arretrata e misera Almería con il figlio con disabilità avuto da un’assente moglie italiana, uomo poco propenso all’ottimismo e che tuttavia empatizza con quei tre strampalati visitatori.Antonio riuscirà a incontrare Lennon o ad avere un qualche contatto con lui? Lasciamo scoprire la risposta allo spettatore, il quale in ogni caso non resterà deluso da questa commedia che con leggerezza affronta temi seri, offrendo attraverso il protagonista anche qualche piccola lezione su cosa significhi saper ascoltare, essere disponibili, ma anche sul resistere. Un film che può vantare anche una colonna sonora firmata da Pat Metheny. E forse è stato un bene che i diritti delle canzoni dei Beatles fossero troppo alti per il budget della produzione, perché ciò rende ancora più preziosa l’unica perla regalata proprio nel finale. p.s., direbbero i Beatles: sarà un caso, ma dopo la parentesi andalusa di Lennon, sui loro dischi — non tutti — cominciarono a comparire i testi delle canzoni. Una novità poi divenuta quasi una prassi anche per altri artisti.
(©L'Osservatore Romano – 23 ottobre 2015)Chi era il tricheco«Pinguini elementari che cantano Hare Krishna, avresti dovuto vederli prendere a calci Edgar Allan Poe». È un verso tratto da I am the Warlus (“Io sono il tricheco”), una delle più riuscite canzoni a firma di John Lennon incisa dai Beatles. Con un certo margine di sicurezza, c’è da ritenere che Lennon non nutrisse particolare avversione per lo scrittore statunitense, il cui nome compare nel verso succitato solo per esigenze metriche o di assonanza. Fiumi di inchiostro sono stati versati negli ultimi decenni per tentare di interpretare i testi del quartetto di Liverpool. Linguisti, semiologi e antropologi hanno cercato di fornire una chiave che svelasse i presunti segreti nascosti tra i versi dei Beatles. Ma nessuno è riuscito davvero nell’impresa. Anche perché in verità — e le parole tratte da I am the Warlus ne sono prova lampante — c’era ben poco da capire. Come hanno a più riprese dichiarato, dopo lo scioglimento del gruppo, i quattro, oggetto di un’ammirazione planetaria che sfiorava il fanatismo, si divertivano un mondo a inserire nei loro testi frasi allusive, riferimenti meta e ipertestuali. E puntualmente, alla pubblicazione di un nuovo disco — o Lp come si diceva allora — si scatenava la caccia per individuare una pista che, ad esempio, confermasse la notizia della presunta morte di Paul McCartney e della sua sostituzione con un sosia. C’era chi arrivava a registrare i dischi per poi ascoltare il nastro al contrario nel tentativo di individuare una traccia. Traccia che puntualmente i Beatles lasciavano per alimentare il loro mito e per prendersi gioco degli esperti di turno. Anche questo aspetto della storia beatlesiana quindi va letto nell’ottica dell’arguta leggerezza che ha segnato la loro musica. In fondo si trattava di ragazzi poco più che ventenni, capaci però di non prendersi troppo sul serio e che proprio per questo sono riusciti a non farsi travolgere dal successo. A prenderli fin troppo sul serio sono stati altri, come dimostra la tragica vicenda di Charles Manson, il feroce assassino che insanguinò la California della fine degli anni Sessanta e che dichiarò di avere tratto dai testi di alcune canzoni dei Beatles l’ispirazione per i sui efferati crimini. (giuseppe fiorentino)Muy bienLa vicenda narrata dal film di David Trueba riporta alla memoria la Spagna diferente degli ultimi anni di Franco, quando i film stranieri venivano proiettati in lingua originale e sottotitolati. Una scelta che si direbbe raffinata secondo i canoni più rigorosi della cinefilia — e coerente con la ricchezza di traduzioni editoriali in alcuni settori (per esempio, la teologia) — ma che si illumina di altra luce ricordando la versione di alcuni dialoghi, ritenuti a rischio dagli attenti (e comunque colti) censori. Come il telegrafico e decisamente comico muy bien che sintetizzò una lunga risposta nell’affascinante film di Bergman Sommerlek (“Un’estate d’amore”), naturalmente incomprensibile nell’originale svedese. (g.m.v.)