Io non ho titolo a parlare di Sergio Givone, il filosofo, sebbene mi sia impegnato nella lettura di libri come “Disincanto del mondo e pensiero tragico” o, in precedenza, e a me assai più vicino, “Hybris e melancholia”. Il mio apporto a questo incontro consisterà invece nella rievocazione dell’amicizia che nacque tra di noi quando egli non era ancora il filosofo della “Storia del nulla”. Se avessi potuto offrire soltanto aneddoti, mi sarei astenuto da questa partecipazione. Credo invece che il rendere noti alcuni tratti della personalità di Sergio all’epoca dei suoi studi al Liceo Lagrangia di Vercelli possa risultare utile ai fini di una piena comprensione di ciò che egli sarebbe diventato in seguito.
Correvano i primissimi anni Sessanta. Di tre anni meno giovane di lui, io ero allora un musicista all’inizio di una difficilissima carriera – concertista di chitarra e studente di composizione – e, rimasto orfano nell’adolescenza, provvedevo al mio sostentamento svolgendo lavoretti che – dicevo – non dovevano mettere a rischio l’integrità delle mie mani. In realtà, sapevo benissimo di essere impegnato nella tutela di altri valori, assai più delle mie dita esposti al rischio della sopraffazione. Oltre ad alimentare i miei voraci studi di musica, davo sfogo a una sorta di bulimia letteraria, sottraendo tempo al sonno, e fagocitavo a decine i grigi, austeri volumi della Biblioteca Universale Rizzoli, quelli dal dorso verde – di maggior pregio – della Medusa di Mondadori e, assai più raramente, mi avventuravo persino nelle pagine di qualche costoso tomo della Boringhieri, sporgendomi sui testi sacri dei maestri della psicoanalisi. Di quelle mie letture, non parlavo ad anima viva. D’altronde, nessuno si interessava a me, allora, e non avevo alcuna occasione di versare in qualche dialogo i miei pensieri riguardo ai libri che andavo divorando. Unica eccezione, il professor Pino Bo – docente di lettere al Liceo Lagrangia – volle saggiare il terreno, e mi invitò nel suo studio. In un paio di incontri, mi fece buttar fuori tutto quello che mi passava per la mente riguardo a Dostoevskij, a Thomas Mann, a Marcel Proust, a Franz Kafka, ai grandi poeti del Novecento, e mi interrogò bonariamente persino riguardo a Carl Gustav Jung, Poi, mi fece suonare per una mezz’oretta. Alla fine, mi disse chiaro e tondo di puntare alla musica, “che è il tuo mestiere”, concluse. Del resto, io non avevo mai nutrito dubbi in proposito.
Nella mia ansia di leggere, non mi risparmiavo nemmeno i poeti locali che, accennando fumosamente ai veti frapposti tra le loro liriche e la glorificazione delle medesime nelle riviste letterarie nazionali e nella apicale collana de “Lo Specchio” di Mondadori – tutte, secondo loro, asservite a misteriosi e ostili poteri – si risarcivano irrogando i loro versi ai lettori dei giornali cittadini. Fu lì che mi imbattei – con somma meraviglia – in due o tre brevi liriche il cui autore – tale Sergio Givone – mi sembrava davvero toccato dal dono della poesia. Non sapevo chi fosse, ma il suo cognome non mi era ignoto. Infatti, ricordavo i racconti nei quali il mio defunto padre, commerciante di cavalli da lavoro, e come tale conoscitore enciclopedico delle storie e delle leggende della terra del riso, mi aveva decantato la figura di un Givone miracolosamente sopravvissuto allo sterminio dell’armata del generale Oreste Baratieri nella battaglia di Adua, e poi tornato alla sua cascina in quel di Buronzo.
Alcuni giorni dopo la lettura di quelle liriche, ricorreva proprio la festa patronale di Buronzo, e alcuni coetanei mi ci trascinarono, divellendo le mie radici dallo stanzone di un alloggio di ringhiera posto sotto la Torre dell’Angelo, dove abitavo poveramente e dove trascorrevo, suonando e leggendo, giorno e notte. Ero talmente stremato da aver perso il senso del tempo e, appena caricato su un’automobile, mi addormentai come un sasso. Quando fui risvegliato, non sapendo dove mi trovassi, mi resi conto che era notte, e che l’auto era stata posteggiata alla meglio ai margini di un luna park e di un ballo all’aperto. Non ero però sveglio al punto da accorgermi che lo sportello da aprire dava, non sulla strada, ma sul ripido ciglio di un fosso, nel quale sprofondai appena sceso. Ne risalii inzuppato fino al collo, e in quello stato seguii riluttante il gruppetto, che puntò dritto verso la balera. Quando fummo dentro, cercai di sedermi da qualche parte, e trovai in un angolo in penombra una sedia vuota accanto a un tavolino intorno al quale tre o quattro ragazzi chiacchieravano tranquillamente. Senza dir loro nulla, mi sedetti lì e, tolta la camicia, presi a strizzarla per spremerne l’acqua del fosso. Uno degli astanti mi rivolse la sua compassionevole attenzione: si capiva d’acchito che era capitato lì per caso e che, non diversamente da me, si sarebbe trovato assai più volentieri altrove. Ci presentammo, e non appena udii il suo nome, sorpreso, subito gli domandai se fosse l’autore delle poesie pubblicate dal periodico di Vercelli qualche giorno prima. Era proprio lui. Erano quelli i bei tempi in cui mi bastava leggere un sonetto due o tre volte per mandarlo a memoria, e non ebbi difficoltà a citargli qualche suo verso. Ne rimase esterrefatto, ma subito si riebbe e, animati da quell’imprevista fortuna, non perdemmo tempo e intavolammo una conversazione sulla poesia: benché molestato dal frastuono della festa, il dialogo fu lungo, spontaneo e cordiale. Mi parve che ci conoscessimo da sempre, e che, anche in quel luogo poco propizio, nulla ci impedisse di parlare di quel che c’importava. Facemmo le ore piccole e, naturalmente, il nostro dialogo non finì lì.
Prendemmo a incontrarci assai spesso. Io lo aspettavo all’uscita del Liceo Lagrangia, in sella a una motocicletta che guidavo temerariamente – credo che il mio angelo custode dovesse rimboccarsi le maniche ogni volta che avviavo il motore – e, offrendo a Sergio un passaggio, abbreviavo il suo ritorno a Buronzo, risparmiandogli il viaggio in treno e rosicchiando agli obblighi crudeli del mio studio e delle occupazioni da cui ero assillato il tempo delle nostre conversazioni. Debbo sottolineare un aspetto essenziale, che non era soltanto lo sfondo, la scenografia, dei nostri colloqui, ma una componente della loro essenza: il paesaggio vercellese, le risaie, i filari di pioppi e di robinie, i fossi, le cascine, gli aironi, le nitticore, le gallinelle d’acqua e i corvi, le gazze, le rondini e le libellule. Era il mondo nel quale eravamo nati, e del quale ci sentivamo partecipi. Sapevamo tuttavia di non poter diventare a nostra volta contadini, agricoltori, e ben presto, nei nostri discorsi, affiorò chiara anche la nostra volontà di non seguitare neppure il destino dei figli dei coltivatori di riso, che sarebbero rimasti tali anche inurbandosi come medici, avvocati, notai, ingegneri. Io ero già, in qualche modo, un musicista, e lui non impiegò molto tempo per raggiungere una piena consapevolezza di un suo, diverso destino: non avrebbe ereditato da suo padre l’impegno di condurre la tenuta di famiglia e non sarebbe andato all’università per diventare un professionista con la casa in città e, affidata a dei mezzadri, la cascina da guardare dalle finestre dello studio. Nei nostri progetti, c’era la fedeltà alla terra che ci aveva generato, ma che non poteva essere la meta della nostra esistenza: dovevamo andare oltre, sebbene non sapessimo, allora, né dove né come.
Fu proprio nell’orto-giardino di casa sua, a Buronzo, che si parò dinnanzi a noi la questione essenziale. Io avevo ventun anni e lui diciotto, ma nessuno dei due dovette forzare l’altro a porre esplicitamente la domanda che, latente, dominava tutti i nostri discorsi: qual è il senso dell’esistenza? Prese forma proprio in quei giorni la sua, la mia, la nostra risposta: l’arte è il solo impegno capace di dare senso alla vita, tutto il resto è accessorio o irrilevante. Nell’arte, noi vedevamo soprattutto il mezzo per andare al di là dell’apparenza delle cose, quelle che amavamo, ma la cui sola presenza indecifrata non poteva colmare la nostra ansia di vedere più lontano. Ricordo benissimo la conclusione alla quale giungemmo alla fine di un dialogo serrato, come stretto tra le sponde di un alveo dal quale non sarebbe stato possibile, né sensato, debordare: l’arte è creazione di immagini, e l’immagine è più vera, più autentica, più profonda, della realtà dalla quale l’artista la genera. L’immagine è la manifestazione di qualcosa che sta al disopra della realtà – mi disse – e la ricerca di questo qualcosa – io soggiunsi – esige e merita l’impegno dell’intera esistenza. Impegno nel quale io ero già comunque versato anima e corpo. Non sapevamo, allora, quanto l’argomento avesse occupato da secoli i pensieri di grandi filosofi, ma Sergio fu capace di trovare in sé la risoluzione definitiva che avrebbe segnato il corso della sua vita ben prima di leggere Kierkegaard e Schopenhauer, e quando non aveva ancora la minima nozione di chi fosse Luigi Pareyson. Mi sembra degna di nota quella consapevolezza, mia e sua, del fatto che non stavamo scherzando e – come diceva lui, con l’ironia di cui è capace, benché di rado ne abbia fatto uso nella sua opera – che le nostre non erano le tipiche convulsioni degli adolescenti che scrivono poesie e fanno voti di dedizione a ideali supremi prima di arrendersi a un impiego di routine e a una donna. Sapevamo benissimo che era in gioco la nostra vita: tutto ciò fu chiaro, esplicito e mai, nei nostri dialoghi a venire, fu oggetto di ripensamenti.
Mi sembra importante mettere a fuoco l’origine della sua opera di filosofo, legata a un substrato emotivo e immaginifico di indole artistica. Non ebbi motivo di sorprendermi quando egli divenne un maestro di estetica, perché sapevo che la sua filosofia aveva origine e trovava alimento nell’arte, e ho sempre dato per scontato il fatto che egli è fondamentalmente un artista. La sua scelta di manifestarsi in ambito filosofico è stata ai miei occhi un’opzione puramente formale. Dunque, meno che mai mi sono sorpreso quando, dopo aver pubblicato parecchi testi filosofici, mi annunciò che stava scrivendo il suo primo romanzo, e non ho mai faticato, sia a riconoscere nei suoi saggi alcune intonazioni narrative che a scorgere, dietro le storie che ha raccontato, una solida struttura filosofica. Ricordando il nostro rifiuto giovanile del pensiero di Jean Paul Sartre, una volta lo volli provocare, insinuando che, alla fine, era lo scrittore italiano la cui opera – nel profilo del catalogo se non nella sostanza – maggiormente assomigliava a quella del maestro che aveva scritto sia “L’essere e il nulla” che “Il muro” e “Il rinvio”.
Il nonno di Sergio fece la sua inattesa comparsa nel pomeriggio di un giorno d’autunno. Il formidabile vecchio appariva ai miei occhi come l’incarnazione di un tragico enigma della nostra storia, e il suo portamento si mostrava all’altezza dell’aura leggendaria nella quale, assai prima di incontrarlo, l’avevo collocato fin dai tempi dei racconti di mio padre. Incalzato dalle mie domande, si lasciò andare alla rievocazione della carneficina e dell’incredibile fortuna con cui ne era uscito sano e salvo. Nel suo racconto, non fluttuavano solo ricordi (peraltro lucidissimi), ma anche immagini, vive fino all’incandescenza. Nel suo modo di raccontare le vicende e di ricordare i nomi dei luoghi e dei protagonisti della tragedia, adoperava il tono familiare tipico di chi i fatti li ha vissuti, e non letti nelle pagine di un libro. Menzionava il re Menelik e Ras Alula come fossero stati i proprietari delle tenute confinanti con la sua: era come ascoltare le storie dell’Iliade raccontate, non da un rapsodo omerico, ma da un Aiace che avesse appena deposto lo scudo. Trapelava però nelle sue storie una sorta di rimpianto per qualcosa che, fuggendo dal Tigrai, gli era poi venuto a mancare, e compresi che il mal d’Africa lo aveva contagiato fino a fargli sembrare angusto il mondo che aveva trovato al suo ritorno. Il sopravvissuto di Adua era, nell’anima, simile al bel viaggiatore cantato da Victor Hugo nei suoi “Adieux de l’hôtesse arabe” e, sebbene si fosse rassegnato alla terra padana, non diversamente dal nipote, guardava oltre, lontano.
Non intendo smentire la premessa nella quale ho dichiarato la mia inettitudine a dire alcunché sul filosofo Givone, ma ritengo di poter dare una testimonianza riguardo alla percezione che, del suo pensiero, hanno persone estranee agli studi filosofici. Nel 2004, un allievo della classe di chitarra del conservatorio, che studiava anche lettere classiche all’università, mi domandò una volta chi fosse Sergio Givone, al di là dei suoi titoli accademici. Gli risposi che, secondo me, era il maestro del pensiero utile. Dovetti subito rispondere all’ovvia, successiva domanda: utile in che senso? Lo feci rivolgendo a mia volta una domanda allo studente: che cos’è, secondo te, la dignità? Dinanzi alla sua ammissione di non avere una risposta ben definita, lo invitai a scendere con me in biblioteca, dove era disponibile una connessione alla rete, e lì cercai un discorso di Sergio sulla dignità: non si trattava di uno scritto, ma del testo di una sua risposta alla domanda di una studentessa. Il mio allievo, dopo averla letta, mi disse di aver compreso la mia definizione di “pensiero utile”. Fu facile, da quella constatazione, fargli intendere come Givone avesse riportato al centro della sua filosofia l’eterna questione del bene e del male, rischiando di apparire come un moralista démodé, e mantenendo sempre in primo piano, nella sua visione del mondo, la scena del visitatore che avvicina, in tempi e circostanze diversi, ma sempre con lo stesso fine e con le stesse modalità, Ivan Karamazov e Adrian Leverkuhn.
Nato poeta, cresciuto e rivelatosi filosofo, Sergio ha poi coltivato anche il campo della narrativa, con i suoi tre romanzi. Non ho mai pensato che si sia trattato di una virata, di un cambiamento di rotta. La scrittura del racconto era nel suo codice genetico, e non credo che gli abbia richiesto conversioni laboriose. Così come ho evitato di dire qualsiasi cosa sulla sua opera filosofica, mi astengo dal parlare anche della sua opera letteraria. Tuttavia, suppongo di non valicare i miei limiti sottolineando la ricchezza immaginifica dei suoi romanzi e, in particolare, un aspetto che forse può non risultare evidente a tutti i lettori. I primi due romanzi, “Favola delle cose ultime” e “Nel nome di un dio barbaro”, sono ambientati nelle terre d’acqua vercellesi. Fin dalla prima lettura, non ho dovuto faticare per riconoscervi i modi, le cadenze, i toni che caratterizzavano le affabulazioni alle quali usavano abbandonarsi i contadini durante le loro veglie invernali nelle stalle. Quei rudi lavoratori liberavano, nelle loro storie, fantasie deliranti sospese sul confine tra la vita e la morte, la salvezza e la perdizione, il coraggio e il terrore, e le popolavano di un ricco bestiario e di creature arboree e zoomorfe, capaci di mutazioni diaboliche. Givone ha ereditato questa vocazione visionaria e vi ha plasmato i suoi personaggi, collocandoli in un’ambientazione atemporale, anche quando i fatti che narra si svolgono in epoche ben precisate. Fedele alla sua convinzione adolescenziale, ha superato il piano della realtà per cedere all’immagine parte notevole del racconto. Tuttavia, i contorni della realtà permangono riconoscibili: la cascina detta “La Nave”, Trino Vercellese, Rovasenda, sono luoghi reali. Vengono però abitati e visitati da personaggi che ne trasformano l’anima, facendone luoghi alieni, grondanti blandizie paradisiache e infernali minacce. Questo procedimento è la sublimazione letteraria dell’immaginario popolare delle terre del riso, nelle quali l’autore è nato e cresciuto, e che non ha mai voluto dimenticare. A questo retaggio, ha trovato un approdo immaginifico, e dunque salvifico: non si è fermato, come suo nonno, al mal d’Africa, ha spiegato l’ala verso una meta, e l’ha raggiunta.
Nei confronti della musica, Sergio accampava da sempre una sorta di blocco che, secondo lui, derivava dalle sue scarse attitudini specifiche – una presunta mancanza d’orecchio e di predisposizione istintiva al canto. Questo non gli impediva di ascoltare con estrema concentrazione, quando eravamo poco più che ragazzi, non soltanto le sinfonie di Beethoven e le Variazioni Goldberg o il Concerto Italiano di Bach, ma anche composizioni come “Le reveil des oiseaux” di Olivier Messiaen. Dunque, non mi feci mai ingannare dalle sue proteste di sordità musicale, e tuttavia dovettero trascorrere molti anni prima che egli si smascherasse. Fu quando gli feci inviare, dal solista e dal direttore che avevano effettuato la registrazione, il disco del mio primo Concerto per chitarra e orchestra. Era stato scritto come rievocazione di una liturgia della Settimana Santa, l’officio delle tenebre. Abbandonato dalla chiesa, il “Matutinae Tenebrarum” era ancora in uso in alcune chiese del vercellese negli ultimi anni quaranta. Celebrato prima dell’alba, era un rito agghiacciante, al quale partecipavano soltanto i fedeli più ardenti e inclini alla penitenza. Tra di essi, una mia parente, che – in assenza dei miei genitori che, dovendo affrontare un viaggio, mi avevano affidato a lei per alcuni giorni – non esitò a condurmici. Era, credo, il 1946. Il ricordo della penombra appena ferita dai ceri, che a uno a uno venivano spenti fino a far precipitare la chiesa nel buio, e delle lamentazioni intonate dal celebrante, rimase in me come un’ossessione che si sarebbe in futuro ripresentata a periodi, quasi un incubo. Ma non fu per liberarmene che scrissi il concerto intitolato “Leçons de Ténèbres”. A indurmi a comporlo, fu la mia percezione di un’affinità profonda che legava l’assemblea dei fedeli nelle nostre chiese a quella dei penitenti che, nei riti della Settimana Santa a Sevilla, sfilavano in strascicate processioni. Fino ad allora, Sergio era stato parco nei suoi commenti alla mia musica, accampando la scusa del suo scarso intendimento, ma, dopo l’ascolto di quel concerto, mi chiamò al telefono e mi disse con forza: “Allora, ce l’hai fatta!”: aveva riconosciuto in quell’opera il compimento di un itinerario simile al suo, la trasformazione del lascito culturale di cui ero, come lui, erede, in una creazione immaginifica che andava oltre. Altro che orecchio!
Naturalmente portati al “fare”, non ci limitammo, nei primi tempi del nostro dialogo, a discorrere di poeti e scrittori, e tentammo anche di concretare le nostre idee con una collaborazione artistica. Progettammo di girare un breve film sulla Baraggia – l’ampia zona pianeggiante e incolta che divideva le risaie dalle colline del biellese: Buronzo ne era il capoluogo. Era una bellissima brughiera, ricca di una vegetazione e di una fauna particolarissime – oggi bonificata e trasformata in risaia. Nell’arte, è rimasta senza cantori, se si eccettua la pittura ispirata ma ingenua del piccolo maestro gattinarese Arturo Gibellino. Sergio si mise al lavoro e scrisse una traccia piuttosto dettagliata del film. Non era ancora una sceneggiatura – del resto non c’erano personaggi – ma sembrava sufficiente per incominciare le riprese, delle quali si incaricò un nostro conoscente, il fotografo vercellese nostro coetaneo Roberto Liverani, che avrebbe avuto purtroppo vita breve. Io avrei fatto il regista, guidando Roberto negli intrichi stepposi della Baraggia alla ricerca di immagini corrispondenti al testo, ma anche capaci di parlare da sole. Avrei poi dovuto, a riprese terminate, comporre, eseguire e registrare il commento musicale.
Ci dovemmo fermare dopo le prime tre o quattro sessioni. Per riprendere in modo soddisfacente la scena rituale della cattura di un miroldo da parte di un gruppo di contadinelli – descritta dall’autore con dovizia di dettagli gestuali – il fotografo, che era anche il nostro produttore, consumò la pellicola che doveva bastare per l’intero film, e si tolse dal progetto. Fu una disfatta. Mi sono spesso domandato se, tra le sue carte, Sergio abbia conservato quei fogli scritti a mano. Mi piacerebbe che li ritrovasse e li rileggesse. Immagino che abbia dimenticato quello che io avevo fatto del suo testo dopo il naufragio del film: con una matita rossa da maestrino di scuola, avevo tracciato molte sbarrette oblique – oggi dette slash – in ogni pagina, e poi gli avevo restituito lo scritto insieme a un’esortazione, che a lui forse parve diabolicamente opportunista, ma che io sarei disposto a sostenere ancora oggi: “Dopo ogni sbarretta, vai a capo: ne viene fuori la miglior poesia che tu abbia mai scritto”. Io non ricordo quei versi, ma ricordo benissimo che, in capo al frontespizio, avevo citato, trascrivendoli, pochi altri versi, che si legavano perfettamente a quelli del mio amico. Li aveva scritti, qualche decennio prima, un altro poeta, nostro corregionale, anch’egli passato – sebbene come professore – per le aule del Liceo Lagrangia di Vercelli:
Fra le foglie
Che stormivano al buio, apparivano i colli
Dove tutte le cose del giorno, le coste
E le piante e le vigne, eran nitide e morte
E la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.
Talvolta ritorna
Nell’immobile calma del giorno il ricordo
Di quel vivere assorto, nella luce stupita.
Non saprei trovare un equisono poetico più giusto e armonicamente puro per l’arte di Sergio Givone, e, per quello che qui ho detto, una conclusione più sentita. Lui e io, ne sono certo, concordiamo oggi nel sentirci immuni da ansie interrogative circa il destino delle nostre opere presso la posterità. Il nostro scopo, ben più concreto e immediato, era il dar senso alla vita, la nostra, questa, hic et nunc, e i due vecchi che hanno ormai imboccato il viale del tramonto, rivolgendosi agli adolescenti inquieti che furono, oggi possono ben dire: sì, ce l’abbiamo fatta.
Angelo Gilardino
Vercelli, 21 ottobre 2014.