Se si vuole un esempio molto chiaro di come vengano orientate le opinioni pubbliche occidentali, c’è l’esaltazione del cosiddetto Occupy Hong Kong o movimento degli ombrelli, che sarebbe tutto teso alla ricerca di una liberal democrazia integrale e mobilitato dalla paura che con il definitivo ritorno alla Cina aumentino le diseguaglianze sociali. Ora è pur vero che i tempi cambiano, ma è anche vero che ad Hong Kong non si sono mai svolte elezioni dal 1842, ovvero da quando entrò fra i domini di sua maestà britannica, senza che sia mai visto scendere qualcuno in piazza né che i giornali occidentali si siano strappati i capelli per questa democrazia negata. L’idea delle elezioni e dunque del suffragio universale per eleggere il governatore è comparsa solo grazie agli accordi per il ritorno definitivo della ex colonia nel Paese di Mezzo.
Ed è anche vero che Hong Kong è uno dei luoghi nel mondo dove la disuguaglianza è più grande, (0,57) certamente molto superiore alle aree urbanizzate della Cina (0,34) tanto che insieme a qualche miliardario immerso nei grattacieli, il 30% della popolazione, espropriata dagli uffici, vive in case popolari minime oppure in case portatili chiamate “gabbie”. Dunque una paura quella degli ombrelli o della loro narrazione priva di senso, anche perché in quello che è stato definito dall’ Economist lo stato più capitalista al mondo non esistono pensioni, né welfare di alcun tipo ed è solo su insistenza di Pechino che è stato istituito, con grande ostilità da parte dei ricchi locali un salario minimo e un inizio di contrattazione collettiva sui contratti. Tutte cose che naturalmente ignoriamo, presi come siamo dai feticci che ci vengono presentati come distillato della verità unica. Anzi cose delle quali ci stiamo liberando come fossero reperti del passato.
Visto che non siamo precisamente nel regno del bengodi, che non c’è alcuna conquista da difendere, né alcuno status democratico precedente e che anzi le elezioni sono frutto della decolonizzazione, com’è che la gente scende in strada quando i termini del definitivo ritorno sotto Pechino erano stati specificati chiaramente nei trattati (probabilmente viziati dall’idea di fondo che la Cina sarebbe diventata come Hong Kong) e che comunque rappresentano un enorme progresso rispetto alla status di colonia senza diritti? Nel frattempo è successo che la città, venuta meno la sua natura di isola tra l’oceano e il continente cinese, ha perso tutte le industrie che sono volate nell’entroterra ed è rimasta esclusivamente un’oasi finanziaria. Rimane dunque un proletariato “degradato” , quelli delle gabbie o dei 30 metri quadri per sei persone, che se la cavava nei tempi delle vacche grasse, che ora sopravvive soltanto senza alcuna prospettiva ed è ampiamente disponibile come massa di manovra sia dei poteri locali che vorrebbero conservare una totale deregulation nei loro affari, sia sul piano geopolitico dagli Usa che cercano in ogni modo di mettere in difficoltà Pechino e che ormai sono espertissimi nella creazioni di movimenti di piazza colorati. Paradossalmente la piccola e media borghesia sta invece con la Cina avendo compreso che il futuro della città è nella graduale integrazione con il continente e nel suo ruolo di porta col mondo esterno, non in una sorta di eccezionalità finanziaria come testa di ponte occidentale.
C’è molto da imparare da questa situazione che dal punto di vista delle prospettive e delle idee sostanziali è in realtà una sorta di contro Occupy, anche perché pure in Europa e in Italia stanno facendo la loro comparsa aree di proletariato e di piccola borghesia degradata, ovvero non più consapevole dei propri interessi, disponibili a svendere qualsiasi cosa nel tentativo di rimanere a galla nelle condizioni date e proprio per questo incapaci di dar vita a prospettive di cambiamento. Magari anche quella democrazia formale che sarebbe invece l’obiettivo apparente di occupy Hong Kong. Non c’è da stupirsi della contraddizione: il capitalismo nella sua versione finanziaria sa sfruttare tutto e il contrario di tutto, insinuare il desiderio di democrazia come quello di mandarla all’aria. E’solo questione di opportunità.