A cura della Dottoressa Anna Chiara Venturini, psicologa psicoterapeuta a Roma
Il bisogno di categorizzare e racchiudere in gruppi le persone “diverse”, è un meccanismo della mente atto a facilitare l’elaborazione delle informazioni e a creare schemi per leggere e interpretare il mondo. Il principio di categorizzazione su cui si fondano stigma, stereotipi e pregiudizi è quindi cognitivamente “conveniente” per ridurre la complessità del mondo circostante. Sappiamo benissimo come il poter “stigmatizzare” l’altro come diverso e “anormale” sia da sempre una metodica utilizzata dall’uomo per preservare la propria “sanità” soprattutto mentale e sentirsi “normale”. A cominciare dalle crociate, passando per la caccia alle streghe e terminando con la creazione dei manicomi, l’essere umano ha avuto da sempre la necessità di combattere ciò che era percepito come “differente da sé”, sconosciuto, insondabile, ignoto e quindi fonte di ansie e paure. Nel caso specifico delle patologie mentali, la creazione delle “cittadelle manicomiali” e le varie tipologie di terapie messe in atto all’epoca, la dicono lunga sul bisogno di bollare e tenere al contempo lontano chi era considerato diverso, anormale e spesso “pericoloso per sé e per gli altri”. Se ben ci pensate, questo è il medesimo meccanismo che ha portato a considerare l’omosessualità una grave patologia psichiatrica, almeno fino a 40 anni fa.
Dopo essere stato considerato un reietto di Dio, perché la sola coppia possibile era quella formata da un uomo ed una donna in quanto garanti della prole, l’omosessuale era diventato una persona mentalmente disturbata e quindi curabile alla stessa stregua delle altre persone affette dalle medesime psicopatologie. Basti pensare all’ antropologo Lombroso che spiegava il comportamento criminale e quello non etero-orientato con lo stesso determinismo biologico. L’omosessualità era dunque un disturbo dello sviluppo cerebrale, il risultato di un processo graduale di degenerazione funzionale, dovuto a cause ereditarie e a disturbi del sistema nervoso.
In realtà, quando nel 1973 l’APA, American Psychiatric Association) elimina l’omosessualità dal DSM ( Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) segna un importante punto di svolta: non si tratta più di una psicopatologia ma di un orientamento sessuale assolutamente normale e sano, “non patologico”.
Se questo però da un lato ha “legittimato” l’identità sessuale, dall’altro non ha risolto la problematica di fondo: la clandestinità con cui molto spesso gli omosessuali devono fare i conti per poter essere socialmente accettati ( omosessualità egodistonica, conflittuale). Il percorso del coming out ( letteralmente “uscire allo scoperto”), è infatti una strada molto difficile, irta di pregiudizi e preconcetti che difficilmente gli omosessuali percorrono indenni. Molto spesso si presentano dei veri e propri disturbi di natura psicosomatica e di tipo ansioso-depressivo legati alla difficile accettazione sia del proprio orientamento sessuale, sia del percorso che si compie nei confronti dei familiari, amici e colleghi. Il ricorso all’uso di alcool e di sostanze stupefacenti può in alcuni casi caratterizzarsi come una modalità di coping, una strategia per gestire lo stigma sociale, come una sorta di autoterapia per sedare emozioni di vergogna, ansia, colpa, depressione, isolamento, disistima, paura. Paura dei giudizi, dell’emarginazione, dei comportamenti discriminatori che prendono il nome di omofobia e che vengono interiorizzati come messaggi negativi dalla persona omosessuale. Da un punto di vista antropologico possiamo paragonare il coming out a un rito di passaggio che richiede a un gay o a una lesbica di mettere in discussione i principi appresi sull’eteronormatività, di decostruire gli stereotipi sull’omosessualità e di imparare a gestire la propria diversità .L’omofobia spesso assume una forma mascherata, difficile da identificare. A fronte della norma sociale secondo cui non bisogna avere pregiudizi ed è considerato riprovevole essere razzisti, misogini, e anzi occorre essere tolleranti, le persone hanno imparato a monitorare l’espressione pubblica dei loro pensieri e a evitare affermazioni e atteggiamenti apertamente omofobici.
Una particolare forma di evitamento è l’innominabilità. Per alcune persone eterosessuali la difficoltà a pronunciare le parole “gay” o “lesbica” si evidenzia nell’uso di etichette come “persone dell’altra sponda”, “le persone così”, “lui è diverso”, che per le stesse persone omosessuali diventa “è uno della parrocchia”, è anche lui così”.
Se pensiamo inoltre alle difficoltà che si possono incontrare in una dimensione “maschiocentrica” e religiosa come la nostra, è evidente sin da subito come in Italia, sia ancora più difficile per i giovani omosessuali trovare modelli di riferimento ed effettuare il loro coming out.Un preadolescente e un adolescente gay/lesbica rischia, in un vuoto informativo e sociale, di costruirsi un’identità omosessuale in solitudine e di potersi pensare solo come è stato immaginato e quindi di aderire agli stereotipi proposti per essere previsto e legittimato.
La cultura italiana, ma in generale, la cultura occidentale propongono infatti un modello di virilità che coincide con il prototipo di “uomo che non deve chiedere mai” di macho etero sessualmente attivo , costringendo così gay e lesbiche a rifondare la loro autostima poiché è ancora socialmente vivo il concetto di “inversione sessuale “, coniato dal tedesco Westphal e che esprime chiaramente la tipizzazione dell’omosessuale maschio come individuo psicologicamente e fisicamente effeminato e della lesbica come maschio mancato..
Come ci si rapporta in terapia? Come suggerisce Montano, oggi non si tratta più di una terapia del cliente omosessuale, ma con il cliente omosessuale. Lo strumento del terapeuta è dato dalla propria persona, e proprio per questo motivo è importante guardare e risolvere i propri pregiudizi e i propri schemi mentali. Imbarazzo, rifiuto, oppure sentimenti omofobici, possono infatti minare una terapia che può invece essere vista come un’opera di accordatura, per usare una metafora musicale. Il paziente omosessuale è infatti uno strumento che può suonare una splendida melodia, ma che a causa dell’educazione, della società e della religione, è costretto a suonare un’ottava sopra o un’ottava sotto. Compito del terapeuta è accompagnarlo nel viaggio di scoperta della propria melodia, aiutandolo a discernere la propria tonalità da quelle indotte e sostenerlo poi durante l’opera di amplificazione della propria persona attraverso il coming out.
Se invece è il terapeuta ad essere omosessuale, può decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, tenendo presente che, qualora scegliesse di non dire del proprio orientamento sessuale per motivazioni riconducibili a paura, vergogna, imbarazzo, cercando di occultare o mascherare questa parte identitaria, rischia di danneggiare l’autostima dei suoi pazienti e di interferire nel processo maturativo della loro identità omosessuale.
Di seguito vengono riportati una serie di miti sulla sessualità gay e degli spunti di riflessione per poterli mettere in discussione
1) È auspicabile avere un pene grande
Questo mito nei gay va a sovrapporsi ad un altro mito sociale, secondo cui i gay non sarebbero virili, inteso come mascolini. Essi vogliono spesso conformarsi agli ideali di genere maschile nel tentativo di assumere un modello mascolino ( spalle larghe, muscoli tonici e ben definiti etc..), ma quando questo non è possibile e viene meno la coincidenza con tali standard, emerge, insoddisfazione, inadeguatezza, frustrazione. A tal proposito è importante chiarire che:
- Il concetto di virilità non ha nulla a che vedere con le dimensioni del pene
- La soddisfazione sessuale dipende maggiormente dall’intimità che si crea, da quanto si è disposti a mettersi in gioco, dal rapporto tra i partner, piuttosto che dalle dimensioni del pene di uno dei due.
2) Un vero uomo è sempre disponibile all’incontro sessuale
I gay possono fare sesso con estrema facilità ( saune, dark rooms etc..) e chi non trova piacevole o eccitante questo tipo di sessualità può sentirsi sbagliato o “poco virile”. A tal proposito è importante chiarire se:
-si tratta del naturale modo di essere del paziente o dipende dalle sue inibizioni
3) Il sesso non c’entra nulla con l’amore
Questo mito tende a scindere completamente l’aspetto affettivo da quello sessuale, a discapito del primo. A riguardo è importante fare attenzione su alcuni aspetti:
- Se il paziente è bloccato in questo “mito”, nel senso di non riuscire ad unificare le due componenti
- Se vi sono gerarchie di valori: in realltà è importante evitare il verificarsi di queste, poiché non c’è un tipo di esperienza più importante di un’altra. A tal proposito è utile capire la differenze e l’importanza di ambedue i tipi di esperienza
4) Tra due uomini non ci può essere amore ma soltanto sesso
Questo mito deriva dalla cultura omofobica che tende a svalutare la coppia gay dichiarandola impossibile e contro natura.
L’omofobia interiorizzata dei gay porta ad accettare più facilmente la componente sessuale che non quella affettiva, più intima. E’ importante chiarire che:
- Il rapporto d’amore nasce e si sviluppa al di là dell’identità sessuale
- Il rapporto omosessuale ha lo stesso valore di quello eterosesuale
5) I gusti sessuali sono uguali per tutti e per tutta la vita
Molti gay portano avanti nel quotidiano una rigida divisione in “attivo “ e “passivo”, in base ai ruoli rivestiti nell’intimità sessuale. A tal proposito un gay attivo potrebbe aver problemi nel voler assumere un ruolo sessualmente passivo, perché bloccato in questo “ruolo” sociale. Allo stesso modo, se solitamente riveste un ruolo passivo, può avere difficoltà ad esprimere un’esigenza differente perché immagina che il partner lo identifichi con il ruolo “passivo” e che lo abbia scelto per questo. E’ importante per questo spiegare che:
- I ruoli sociali non hanno a che vedere con l’intimità che invece può essere vissuta liberamente dalla coppia nella totale condivisione delle esperienze
- I gusti sessuali non sono uguali per tutti e per tutta la vita e la varietà e la ricchezza delle esperienze possono far scoprire nuovi lati di sé e nuovi gusti
- La sessualità e sempre positiva se condivisa, poiché diviene elemento di crescita personale
6) Un vero uomo è solo attivo
Anche qui emerge nuovamente l’aspetto omofobico interiorizzato: la passività è vista come una caratteristica femminile. In realtà un uomo può essere attivo anche se viene penetrato, poiché la sua è una scelta “attiva”, condivisa col proprio partner per il piacere di entrambe.
E’ indispensabile:
- Rompere l’equivalenza attivo=virile e passivo=femminile
- Comprendere che la virilità non è legata al ruolo sessuale
7) L’alcool serve a superare timidezza, senso di colpa e la vergogna legata all’impatto fisico
A tal proposito è importante lavorare su ogni singola componente emotiva, per poi comprendere che l’alcool, dopo l’effetto disinibente, può in seguito interferire con il rapporto sessuale.
Quanto su esposto riguardo le riflessioni relative ai miti e stereotipi sulla sessualità gay, sono da considerarsi validi anche per la sessualità lesbica. Di seguito riportiamo alcune delle mitizzazioni più frequenti.
1) Una lesbica conosce perfettamente i gusti sessuali della partner in quanto è simile
2) Le lesbiche sono “butch” (mascoline) o “femme” (femminili) e devono accoppiarsi in questo modo
3) La penetrazione: una donna che vuole essere penetrata non è una vera lesbica
4) Non esiste sesso senza amore
5) È auspicabile avere seni grandi
Avere una mente aperta e pensare con la propria testa, senza pregiudizi e stereotipi, è fondamentale per approcciare qualsiasi situazione, a maggior ragione un ambito come quello dell’omosessualità.
Confrontarci e conoscere diverse realtà ci permette di aprire la nostra mente e ci consente di creare un proprio pensiero, libero da credenze nocive.
Possiamo scegliere consapevolmente in cosa credere e come ragionare, quali valori adottare e cosa ritenere importante, fare quel che crediamo opportuno e non confermarci a quanto dice un’autorità superiore.
Le tue convinzioni diventano i tuoi pensieri
I tuoi pensieri diventano le tue parole
Le tue parole diventano le tue azioni
Le tue azioni diventano le tue abitudini
Le tue abitudini diventano i tuoi valori
I tuoi valori diventano il tuo destino
(Gandhi)
Bibliografia
“Psicoterapia con clienti omosessuali”, Antonella Montano, McGraw-Hill, 2000
“Il punto G”, Antonella Montano, Fabio Croce Editore, 2004
“Psicoterapia e omosessualità” , Margherita Graia, Editore Carocci, 2009
“Mogli amanti madri lesbiche”, Antonella Montano, Mursia Editore, 2009
(Ultimo articolo pubblicato “52 pensieri per volersi bene” )
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