A quadrare definitivamente il cerchio di una lunga settimana (d’altronde, lanciato il sasso, inopportuno sarebbe nascondere la mano) e in attesa della proclamazione di domani, anche il tradizionale appuntamento del venerdì, col Venerdì del libro, viene declinato in ossequio al tema settimanale.
Su queste pagine, l’etica e la morale passano anche (soprattutto?) attraverso la decadenza finanziaria e morale di una famiglia di Lubecca e della loro attività commerciale, con un lungo filo che lega quattro generazioni. Una saga appassionante e drammatica, che richiama molti dei temi di cui ci siamo occupati.
Tra fastose dimore, descrizioni che evocano saloni damascati ed abiti raffinati, si narra la storia della famiglia Buddenbrook, della loro ascesa nell’olimpo dell’alta borghesia e della loro, da un certo momento in poi prevedibile, decadenza.
Vite agiate, vite vissute nell’orgoglio dell’appartenenza ad una classe sociale, l’alta borghesia, che incarna valori di rispettabilità ed onore tributati più al nome che ai comportamenti.
Una storia nel segno di matrimoni nei quali l’amore è l’ultima delle variabili, di unioni studiate a tavolino per essere prima d’ogni altra cosa convenienti, giacché il prestigio, nella scala di valori rappresentata, viene prima di qualsiasi cosa.
Ma dopo l’apice, improvviso (anche se ampiamente presentibile) giunge lo sgretolamento, e da lì l’inarrestabile discesa agli inferi, tra disgrazie, malattie e morti che bussano implacabilmente alla porta.
E ogni morte rappresenta un ulteriore scalino di quella discesa agli inferi.
Morti che assurgono, per certi versi, a filo conduttore, per primo se ne va il nonno, il console Johann, il capostipite, il fondatore, che, privo di dubbi esistenziali, ha reso gloriosa la ditta, con giovialità e pragmaticità; per ultimo, stroncato dal tifo, l’adolescente Johann (e si noti che, simbolicamente, tutto inizia e finisce nel nome di Johann), detto Hanno, più artista che uomo d’azione, ma soprattutto prototipo dei molti inetti che popoleranno la letteratura del ‘900. Inetto, Hanno, non già per le sue del tutto legittime pulsioni artistiche, ma per la mancanza di carica vitale e per l’assenza di una forza di volontà in grado di accompagnarlo nell’affermazione della propria scala di valori.
Pure, i tratti di Hanno si vedono già, seppur più sfumati, in suo padre Tom, che rinuncia in gioventù ad un vero amore in nome della ditta e del prestigio, e che dovrà scendere più volte a compromessi con la sua natura e con la sua coscienza.
Ed è così che Tom si crea una maschera di decoro e rispettabilità, che però lo erode dall’interno deprivandolo di ogni residua energia. Energie per lo più investite nel mostrarsi al mondo come l’uomo forte che in realtà non é.
Il buon nome borghese è l’imperativo morale in nome del quale i Buddembrook, uomini e donne, rinunciano ai sentimenti.
Rinuncia che segna profondamente i personaggi maschili del romanzo mentre in apparenza scivola addosso alla protagonista femminile, la frivola e immatura Tony, che dopo aver buttato la giovinezza in matrimoni sbagliati e sventati, con scelte guidate dalla sola l’illusione di perpetuare benessere ed agi, trascorrerà gli anni del declino in un continuo ricordo del passato, rimasto la sola ancora di salvezza.
La decadenza dei Buddenbrook, però, non è la decadenza dei Malavoglia.
Non c’è alcun naufragio della Provvidenza, non c’è alcun ‘dies a quo’ a prefigurare l’inizio della fine. Nei Buddenbrook aleggia sempre una sorta di irrimediabilità del destino che fa apparire la liquidazione della ditta come un fenomeno naturale.
La crisi dei valori, la perdita del senso degli stessi, il depauperamento morale accompagna l’intero libro in un incombente senso di tragedia. E la tragedia, vera, non è la perdita di quei valori, che sarebbero anche discutibili. Ma l’incapacità di sostituire quei valori perduti con valori nuovi ed autorevoli.
Infine a chiudere il percorso della settimana, e a ricongiungersi idealmente col filo conduttore di questi mesi, #ioleggoperché, una citazione che mi pare ancor più potente se ripensiamo alla storia di Ambrosoli, e alla testimonianza in tribunale di Cuccia