Magazine Cinema
di Walter Salles (Stati Uniti/Francia 2012)
La scrittura è intimamente legata al viaggio. L’atto di prendere una penna e cominciare a scrivere implica di per sé un trasformazione emotiva che doppia in maniera figurata, attraverso il richiamo di un certo stato d’animo, o il ricordo di una particolare esperienza lo spostamento geografico del viaggiatore. D’altronde anche il cinema ha spesso utilizzato l’esplorazione di nuovi territori come metafora di crescita e di nuove consapevolezze. Un binomio che nella percezione di quanti l’anno conosciuto nella pagine del suo libro appare in Jack Kerouac assolutamente indissolubile. E’ con questo carico di aspettative, e sulla scia di un mito capace di arrivare fino a noi dopo essere passato per l’america della guerra fredda e dell’amore libero, che giunge nelle sale la prima versione filmata dell’opera, diretta dal regista brasiliano Walter Salles, un tipo che si era già assunta la responsabilità di portare sullo schermo Che Guevara in versione giovanile (I diari della motocicletta, 2004).
La storia è quella di Sal, scrittore di belle speranze deciso a girare l’America in solitudine oppure accompagnato dall'amicizia di una confraternità in cui si distingue la figura carismatica di Dean Moriarty, cultore della vita e dei suoi piaceri, assaporati in totale libertà, e svincolati da condizionamenti moralistici. Tra notti alcoliche ed amplessi di ogni tipo l’esistenza dei protagonisti assume le forme di una rivoluzione privata ed esistenziale, prefigurando il passaggio di quella linea d’ombra che separa l’età dell’innocenza da quella della consapevolezza e della maturità.
Ambientato negli anni appena successivi al secondo dopoguerra “On the Road” non fa mistero di ambire ad un pubblico giovanile e neofita, affidando il progetto del film al richiamo di una faccia come quella di Kristen Stewart nel ruolo quasi cameo di Marylou, moglie promiscua e vacua di Dean, oltre a quelli meno conosciuti ma efficaci di Sam Riley (Sal) e Garrett Hedlund (Dean). E' molto probabile che sia proprio la voglia di farsi comprendere da una contemporaneità lontana anche dal punto di vista antropologico dal vitalismo con cui i protagonisti cercano di affermare la propria identità, ad appiattire i significati di un opera che è stata il manifesto di un nuovo modo di concepire l'esistenza rispetto al mito del sogno americano. Con una fotografia che non perde un momento per abbellire l'ambiente con un'iconografia prelevata a piene mani da Edward Hopper, e con la morbidezza di colori (Eric Gautier, già artefice della fotografia di "Into the Wild" diversamente da quest'ultimo un "on the road" perfettamente calato nello spirito del tempo) che appartengono alla nostalgia ed alla memoria, il film di Salles non riesce a storicizzare la vicenda, impedendo ad uno spettatore ormai avvezzo a qualsiasi tipo di trasgressione, di comprendere fino in fondo cosa volesse dire per la borghesia americana dei primi anni 50, condividere gli stessi spazi della gente di colore, ballare la loro musica, parlare di sesso e praticarlo apertamente nella nazione dei Ku Kux Klan e di Doris Day. A questo si aggiungano poi le conseguenze di una regia compassata, fatta di inquadrature in cui tutto appare ordinato e pulito, curato al millimetro per far risaltare la fotogenia degli attori e del paesaggio naturale. Non c'è mai un brivido o un guizzo di vitalità in questo "On the Road" targato Coppola, che produce il film dopo anni di falliti tentativi. Tutto fila a tal punto che anche il broncio assente ed etereo della Stewart, qui alle prese con un topless che non lascia il segno, e la fisicità convenzionale e sfrontata di Garett Hedlund in un ruolo da bello e maledetto, non riescono mai a diventare le fibre di una carne realmente viva.
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