Le onde gravitazionali sono rimaste a lungo un segnale sfuggente da parte del cosmo, così sfuggente che ci sono voluti cento anni dalla formulazione della teoria della relatività generale di Einstein – che ne prevede l’esistenza – alla prima rilevazione diretta.
Per comprendere meglio l’importanza della scoperta di oggi, abbiamo intervistato Andrea Possenti, astrofisico dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Cagliari (OAC) e responsabile, insieme a un team internazionale, tra cui Marta Burgay dell’OAC e Nichi D’Amico, presidente dell’INAF, della scoperta del sistema binario PSR J0737-3039, la doppia pulsar che ha permesso di testare la relatività generale a un livello di confidenza mai raggiunto prima grazie all’emissione di onde gravitazionali del sistema (per saperne di più su questo sistema e altre sorgenti di onde gravitazionali, si consiglia la lettura di questo articolo).
Dottor Possenti, ci può spiegare come nasce un segnale di onda gravitazionale dalla fusione di due stelle?
«In generale, le onde gravitazionali si generano quando grandi masse subiscono forti accelerazioni e il processo di accelerazione rompe ogni eventuale simmetria di tipo sferico o cilindrico che fosse preesistente. Partiamo dal caso, più facile da seguire con l’intuizione, di due stelle compatte, come due stelle di neutroni. Quando le due stelle stanno per venire a contatto ognuna perde l’identità propria e si forma come un bozzolo caotico di materia. La forma di tale bozzolo di materia in coalescenza è naturalmente molto irregolare e inoltre, cosa ancora più importante, la forma stessa del bozzolo muta rapidissimamente. Ciò corrisponde a una situazione in cui le varie parti del bozzolo subiscono fortissime accelerazioni. Ricordando che le varie parti del bozzolo sono tutte molto massicce, possiamo immaginarle come se ognuna fosse emettitrice di intense onde gravitazionali. L’emissione complessiva di onde gravitazionali è dunque breve e intensa e cessa poco dopo che il bozzolo si è assestato in uno stato finale. Nel caso di due buchi neri, che non hanno una superficie fisica, ma solo un orizzonte degli eventi, la similitudine col bozzolo di materia è molto meno intuitiva e bisogna dunque rifarsi alle simulazioni di relatività numerica, ma i concetti di base restano gli stessi. Fra l’altro, il menzionato meccanismo di emissione di onde gravitazionali (legato a grandi masse sottoposte a intense accelerazioni) è alla base dell’emissione di onde gravitazionali anche nel caso delle fasi precedenti della evoluzione orbitale delle due stelle, in cui la loro orbita si stringe e quindi esse spiraleggiano una verso l’altra. L’emissione di onde gravitazionali durante questa fase di restringimento lento dell’orbita avviene però a frequenze e con una intensità molto più basse rispetto all’emissione di onde gravitazionali durante la fase di coalescenza finale».
E cosa c’è di speciale nel sistema rilevato da LIGO? Insomma, perché proprio lui?
«Finora si avevano solo prove indiziarie dell’esistenza di sistemi binari formati da due buchi neri di massa stellare, in particolare si erano al più catalogati 2 o 3 sistemi binari che apparivano buoni candidati a diventare, ma solo in un futuro non vicinissimo, coppie di buchi neri. La carenza di sistemi accertati è legata alle grossissime difficoltà ad individuarli con osservazioni elettromagnetiche. La scoperta di LIGO apre ora scenari del tutto nuovi nella capacità di catalogare un gran numero di questi oggetti. Curiosamente, si avevano e si hanno molte più informazioni elettromagnetiche su un diverso tipo di binarie formate da buchi neri, ossia quelle composte da buchi neri supermassicci posizionati al centro di galassie (tali buchi neri non sono il risultato diretto di un processo di evoluzione stellare). Alcuni di questi buchi neri supermassicci stanno probabilmente spiraleggiando e molti di essi si sono fusi tra loro in epoche remote. In ogni caso, per sperare di catturare le onde gravitazionali emesse da queste binarie di buchi neri supermassicci sono necessari rivelatori di tipo diverso rispetto a LIGO e a Virgo. In particolare servono o un interferometro nello spazio (battezzato eLisa, il cui lancio è previsto per gli anni ‘30) oppure i cosiddetti Pulsar Timing Array, che sono invece già attivamente impiegati in questa ricerca da alcuni anni e che sfruttano l’utilizzo di potenti radiotelescopi, fra cui il Sardinia Radio Telescope dell’INAF».
Come mai la prima sorgente scoperta di onde gravitazionali è una binaria di buchi neri?
«La scoperta nel 2003 del sistema binario PSR J0737-3039 aveva giustamente ringalluzzito le speranze dei cacciatori di onde gravitazionali, mostrando che le probabilità di osservare la coalescenza di due stelle di neutroni erano 5 o 6 volte maggiori di quanto ritenuto in precedenza. Successivamente, studi puramente teorici circa l’evoluzione di coppie di buchi neri hanno mostrato che il numero di fusioni osservate, dovute a sistemi binari di buchi neri stellari, poteva essere comparabile, o anche significativamente superiore, al numero di quelle dovute a sistemi formati da due stelle di neutroni. Non appare dunque strano che la prima onda gravitazionale catturata provenga alfine da un sistema di due buchi neri».
Come cambiano, a questo punto, le stime di coalescenza di oggetti compatti e quali prospettive si aprono in questo campo di ricerca?
«Sicuramente tutte le stime teoriche, sempre molto complicate e legate a una serie di assunzioni ad hoc, verranno sottoposte alla prova dei fatti. E quando si sarà collezionato un numero significativo di coalescenze, la distribuzione statistica dei parametri di questi eventi sarà utilissima per chiarire molti punti tuttora irrisolti nell’evoluzione stellare e orbitale che porta alla formazione di una coppia di buchi neri, di una coppia di stelle di neutroni e di una coppia (molto più rara, a quel che dicono gli studi teorici attuali) formata da un buco nero e da una stella di neutroni. Sarà un primo esempio di una lunghissima serie di studi resi finalmente possibili dalla nascita, oggi celebrata, dell’astrofisica delle onde gravitazionali».
Fonte: Media INAF | Scritto da Elisa Nichelli