Pensavo fosse amore… e invece, come nella commedia di Massimo Troisi, anche per i cosmologi del telescopio antartico BICEP2 le attese non sono state mantenute. Laddove credevano d’aver intravisto, in quei graziosi riccioli polarizzati della radiazione di fondo cosmico detti “modi-B”, niente meno che l’impronta delle onde gravitazionali primordiali, con tutta probabilità non c’era altro che polvere. Per essere più precisi, emissione dovuta alla polvere galattica.
Dopo quasi un anno dall’annuncio che il 17 marzo scorso suscitò, in tutto il mondo, un clamore paragonabile a quello della scoperta del bosone di Higgs, arriva così il momento della delusione. A sancire ufficialmente la fine del sogno, un inedito lavoro “a quattro mani” dei due team una volta rivali – quello appunto di BICEP2 da una parte, e la poderosa squadra di scienziati del telescopio spaziale Planck dell’ESA dall’altra – ma da qualche mese stretti collaboratori per estrarre il meglio dalle potenzialità dei due strumenti. Lavoro anticipato oggi non senza qualche goffaggine comunicativa – probabilmente l’annuncio ufficiale era in calendario per la prossima settimana – e già sottomesso alla rivista Physical Review Letters.
In realtà il sogno era andato in frantumi già da qualche tempo. I rumors su possibili contaminazioni da parte dei cosiddetti foregrounds (come appunto la polvere galattica) erano cominciati praticamente da subito. E sono del settembre scorso le prime mappe prodotte da Planck dell’emissione polarizzata della polvere a elevate latitudini galattiche, mappe dalle quali già emergeva chiaramente come quelle che BICEP2 aveva ritenuto regioni relativamente pulite fossero, a ben guardare, piuttosto “polverose” anch’esse.
Ma la notizia, allora? Dov’è la novità? La notizia c’è, ed è un’ottima notizia: ed è che il gemellaggio fra i due team c’è stato, e ha prodotto un risultato importante, per quanto possa aver deluso chi sperava in una conferma dell’osservazione di onde gravitazionali. Un bell’esempio di come dovrebbe funzionare la scienza. Ecco come John Kovac – il responsabile di BICEP2 della Harvard University, dunque uno dei protagonisti principali dell’annuncio “incriminato” della primavera scorsa – ha ripercorso oggi l’intera vicenda: «Quando rilevammo per la prima volta il segnale ci affidammo ai modelli d’emissione di polvere galattica disponibili all’epoca. Modelli che sembravano indicare che la regione di cielo scelta per le osservazioni presentasse un contributo in polarizzazione dalla polvere assai inferiore al segnale da noi rilevato». In altre parole, avendo osservato un’area ritenuta relativamente incontaminata dalla polvere, il team BICEP2 aveva interpretato il segnale come di probabile origine cosmologica.
Il problema di fondo di BICEP2 è che – così come l’altro esperimento antartico che aveva raccolto dati in polarizzazione nella stessa zona di cielo, il Keck Array – lavora su una singola frequenza a microonde, a 150 GHz. E questo gli preclude la possibilità di distinguere fra emissioni di foreground ed emissioni di background. Operazione, questa, invece alla portata di Planck, che avendo osservato l’intero cielo su ben nove diversi canali di frequenza (sette dei quali con rivelatori sensibili alla polarizzazione) è in grado di separare dal segnale cosmologico i vari contributi della galassia, sia ad alta frequenza (polvere, rilevabile con lo strumento HFI) che a bassa frequenza (emissione da elettroni e da grani di polvere, rilevabile con lo strumento LFI). Ecco dunque che i team di Planck e BICEP2 hanno deciso d’unire le forze anche per sfruttare al meglio l’evidente complementarietà fra i due strumenti: la capacità del satellite ESA d’osservare l’intero cielo su più frequenze da una parte, e la maggiore sensibilità degli esperimenti da terra dall’altra.
Due degli scienziati di Planck (Paolo Natoli, a sx, dell’Università di Ferrara e Reno Mandolesi, a dx, associato INAF nonché responsabile dello strumento LFI) osservano la nuova mappa in polarizzazione
Le conclusioni rese pubbliche oggi, dicevamo, potranno suonare per alcuni un po’ deludenti. «Abbiamo dimostrato che, una volta rimossa l’emissione della polvere galattica», dice infatti Jean-Loup Puget, dell’Institut d’Astrophysique Spatiale francese, responsabile dello strumento HFI di Planck, «la prova della rilevazione di “modi B” primordiali non è più così solida. Purtroppo, dunque, non possiamo confermare che quel segnale rappresenti davvero un’impronta dell’inflazione cosmica».
In realtà, però, gli aspetti positivi non mancano, e soprattutto non si chiude alcuna porta sull’esistenza delle onde gravitazionali generate al momento del Big Bang. «Abbiamo comunque avuto l’ennesima conferma delle eccezionali capacità di Planck, che proprio grazie alla sua capacità d’osservare l’intero cielo in nove frequenze ha permesso d’arrivare a una conclusione condivisa. Ed è bene sottolineare che, pur non avendo trovato – in queste che sono senza alcun dubbio le migliori osservazioni della polarizzazione della CMB attualmente disponibili – una prova convincente della presenza d’un segnale dovuto alle onde gravitazionali primordiali», chiarisce infatti Reno Mandolesi, associato INAF e dell’Università degli Studi di Ferrara, nonché responsabile di LFI, l’altro strumento a bordo di Planck, «ciò non invalida in alcun modo l’ipotesi dell’inflazione cosmica».
Insomma, che sia con un futuro BICEP versione 3, che sia con un eventuale erede di Planck, o magari che la risposta non sia ben celata nei dati già raccolti, la caccia al segnale che potrebbero aver lasciato le onde gravitazionali primordiali continua, a ritmo più serrato che mai.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina