“Vox populi, vox dei”, recita un popolare proverbio. E, per quanto mi dia fastidio ammetterlo, certe volte i detti hanno un fondo di verità. Ad esempio, quando qualcuno che è stato in Cina vi dice che è “un altro mondo”, ha perfettamente ragione. Me ne sono resa conto appena arrivata a Shanghai, quando mi sono ritrovata a canticchiare un vecchio pezzo dei Kaiser Chiefs “Oh my God/I can’t believe it/I’ve never been this far away from home” (Oh Dio/non ci posso credere/non sono mai stata così lontana da casa). Il primo impatto non è stato dei migliori; a Shanghai non tutti parlano inglese e farsi capire dai tassisti non è proprio la cosa più facile del mondo ed il primo scoglio è stato proprio quello di raggiungere l’albergo una volta uscita dall’aeroporto.
Sapevo già che Shanghai è estremamente cosmopolita e soprattutto occidentalizzata e non mi ha stupito il trovare il centro della città non dissimile da una metropoli europea. Le strade sono disseminati di negozi di brand celebri – e globalizzati – come Dior, Chanel e H&M, per trovare qualcosa di tipico cinese tocca camminare un bel po’. Nonostante questo, un po’ di curiosità nei confronti di una turista occidentale c’è sempre, soprattutto se, come nel mio caso, si tratta di una persona dai capelli mossi e biondi, che per loro è una rarità. Per cercare di calarmi nell’atmosfera della città vado naturalmente a fare una passeggiata e scopro subito che in dei vicoletti a ridosso di questi enormi e lussuosi negozi, ci sono i palazzi dove abitano i cinesi, dall’architettura decisamente più tradizionale.
Per strada la gente attraversa col rosso, le macchine non si fermano molto volentieri ai semafori, sui marciapiedi sfrecciano allegramente motorini e biciclette. Mi guardo attorno e per un attimo mi sembra di essere a Napoli, dove queste cose sono – purtroppo – all’ordine del giorno. Un paio di locali mi si avvicinano per vendermi qualcosa, un portafogli e dei cd, anche questo mi sembra pericolosamente simile a quanto succede nella mia amata città, quindi declino gentilmente sperando che comprendano il mio inglese e tiro dritto. Non è ora di cena ma io ho fame a causa del jet-lag e decido che è il momento di un piatto di zuppa, di quelle ovviamente che preparano qui, deliziose. Sulla soglia del ristorante un paio di ragazze indicano i miei capelli e sorridono tra loro, forse ridono perché ho un aspetto orribile ma non importa, non molto tempo, domani devo svegliarmi presto, alla fine sono sempre qui per lavoro.