di: L.Majewski
con: M.Tatarek, E.Okupska, J.Wartak, S.Budzyk, J.Jedrusik
- Pol, Ita, Sve 2013 -
Drammatico - 102 min
Il moto perpetuo del Cinema prevede ancora la possibilità di rivolgersi
all'immagine - allo studio delle sue declinazioni, al suo potenziale simbolico,
alla sua capacita' di mettere in moto l'immaginazione - come strumento primo
dell'espressività. Almeno a giudicare da un autore, per dire, come Greenaway,
da tempo tra i sostenitori di una siffatta posizione, oppure da un cineasta
come Lech Majewski tra gli "sperimentatori visivi" più assidui e poliedrici
(dare del regista a Majewski e' alquanto riduttivo, essendo egli pittore,
poeta, video-artista, curatore di allestimenti teatrali, compositore e
librettista), e se e' vero che i suoi "I colori della passione"/"The mill and
the cross" (2011) e "Il giardino delle delizie"/"The garden of earthly
delights" (2004) nascono alla luce di un preciso intento finalizzato a
riportare - a meta' fra riproposizione in linea con la tradizione e curiosità
per l'utilizzo delle nuove tecnologie - l'immagine al centro del discorso
cinematografico. Tale desiderio di ricerca si protrae - e trova il suo
compimento - proprio in quest'ultima opera, "Onirica", parte conclusiva di un
trittico inaugurato e sviluppato attraverso i lavori in precedenza citati.
Richiamandosi all'universo lirico e visionario della Divina Commedia di Dante
- lunghi brani della quale, in una selezione che spazia tra vari canti
dell'Inferno e del Paradiso, sono riproposti dalla mirabile prosodia fuori
campo di Massimiliano Cutrera - la vicenda si dipana intorno al corpo magro e
all'espressione dolente e attonita di Adam, giovane poeta e studioso,
miracolosamente scampato ad un incidente automobilistico (in cui perdono la
vita l'amata - Basia - e l'amico del cuore - Kamil -) che oltre ad imprimergli
una lunga cicatrice verticale sul lato sinistro del volto - al di sopra e al di
sotto dell'occhio - lo "segna" a tal punto nell'animo da portarlo ad
abbandonare la vita universitaria, impiegarsi svogliatamente in un supermercato
e cercare sempre più spesso nel sonno - e nel sogno - la chiave d'accesso al
mondo degli affetti perduti, nonché la via giusta per sottrarsi ad una realtà
angosciosa e insensata.
Se la matrice pittorica delle immagini create da Majewski e' svelata dalla
grande maestria con cui vengono costruite le inquadrature e vivificata da
morbidi movimenti della mdp - di rara compostezza formale - capaci di
"rallentare" il passo degli eventi forzando persino il quotidiano senza storia
e minato dal dolore di Adam ad una tregua utile, non certo a redimerlo, quanto,
forse, a renderlo tollerabile, e produce, di fatto, una felice alchimia tra il
piano simbolico e i riflessi realistici della narrazione (valga da esempio la
splendida sequenza - tra l'altro, di complessa ricostruzione, come ricordato
con dovizia di dettagli dal regista in conferenza stampa - che ritrae, durante
uno dei tanti squarci onirici a dilatare su altre direttrici il vissuto del
protagonista, una coppia di buoi aggiogata dal di lui padre e guidata nel
solco
tracciato per arare letteralmente il pavimento del supermercato in cui Adam
passa i suoi "giorni perduti": intuizione, questa, che isola, in un rigore
senza fronzoli, da un lato, l'inerzia priva di variazioni di un sistema -
quello del capitale, delle merci e del consumo - efficiente e pacificato solo
come giustapposizione di superfici smaglianti e, dall'altro, l'istanza,
possente perché irriducibile nella sua aderenza diretta alle cose - per quanto,
con ogni probabilità, oramai tardiva - di recuperare un rapporto più stretto ed
autentico con le radici naturali dell'esistenza), viceversa, il radicalizzarsi
della cripticita' di alcune raffigurazioni allegoriche, come pure e per
contrasto, l'imporsi a tratti di uno schema retorico basato sull'esplicitazione
plateale degli assunti "teorici" che aleggiano intorno al film (da riflessioni
sulla Morte, all'indifferenza/impotenza di Dio; da stranite frasi sentenziose a
citazioni dirette di Seneca, Epitteto, Heidegger), stenta a fare amalgama, se
non nei modi di una macchinosa coerenza, con la dimensione "sospesa" - assai
suggestiva, invece - della vita di un uomo alla deriva in un mondo
incomprensibile e attraversato da "segni" sempre più inquietanti (il 2010,
"annus horribilis" polacco, e' raccontato da Majewski con l'occhio del
cronachista medievale, ovvero quello tarato su una lettura prospettica che
intravede in una concatenazione di eventi luttuosi consumatasi nel presente il
preludio di catastrofi su scala più ampia, tali da pregiudicare il futuro: in
tal senso possono essere inquadrati e collegati fra loro, un inverno gelido e
piovoso segnato da straripamenti, inondazioni, distruzione d'interi villaggi,
in particolare nel Sud del paese; il non ancora del tutto chiarito disastro
aereo che spazzo' via assieme al presidente Kaczynski, un'intera classe
dirigente; come pure l'innalzarsi della gigantesca nube di polveri vulcaniche
dall'Islanda che paralizzando gran parte del traffico sull'Europa, impedì la
partecipazione alle esequie di Stato ad un gran numero di Presidenti e Capi di
governo), spesso in modo tale da comprimere il fluire dell'indubbia
fascinazione visiva dell'insieme entro un contesto raffinato dal punto di vista
delle sollecitazioni culturali ma non per questo meno intellettualistico.
Resta comunque impressa la disperazione composta sul volto di Adam, novello
"primo uomo": ribadendo, infatti, la necessita' di non abdicare alla purezza e
allo slancio del sentimento come elemento distintivo dell'esperienza umana - in
un mondo che appare tanto più desolato quanto più resta sordo a richiami che
non siano vincolati alla prepotenza materialista - essa si pone, allo stesso
tempo, da esempio di "religione" dell'esistenza e da asciutto monito valido per
ognuno di noi, essere umano immerso/abbandonato nella "modernità". Perché
l'"etterno dolore" e' qui, ora e siamo noi "la perduta gente".
TFK
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