C’è chi s’arrende prima del tempo e chi non s’arrende neppure dopo, quando il tempo è scaduto. Hiroo Onoda (1922-2014), deceduto due giorni fa, apparteneva fieramente alla seconda categoria: quella di coloro che non si arrendono mai. La sua storia infatti è leggenda: militare impegnato nella Seconda Guerra Mondiale, quando fu informato dalla radio della resa del suo Paese, il Giappone, non capì o non volle credere alla notizia e, assieme a tre uomini, rimase dov’era stato spedito nel dicembre nel ’44 con l’ordine di non arrendersi a costo della vita: nell’isola di Lubang, nelle Filippine. Un suo uomo venne catturato nel ’50 mentre gli altri morirono in combattimento, l’ultimo nel 1972. Ciò nonostante, Onoda continuò una guerra ormai soltanto sua, per poi arrendersi definitivamente nel 1974, con l’intervento del suo ex comandante, che gli ordinò di deporre le armi.
Una storia tanto singolare, c’è da scommetterci, farà sorridere qualcuno e non mancherà chi ironizzerà su tanta pugnace ostinazione da parte dell’irriducibile soldato. Eppure la vicenda di Onoda, spentosi l’altro giorno a 91 anni dopo un ricovero per problemi cardiaci, non può non stimolare una riflessione a proposito di quella parola così alta ma trascurata, solenne ma oggigiorno guardata con sospetto:fedeltà. Perché è di questo, di fedeltà, che parla l’incredibile determinazione di un militare che per 29 anni ha osservato ordini ormai irragionevoli ma che lui, sospinto da amor patrio e obbedienza, seguitava ad eseguire devotamente. Ci sarà stata anche della pazzia, nella lunga guerra di Onoda. Ma un fatto è certo: nell’epoca che vede innumerevoli Schettino calarsi in mare anzitempo oppure addossare ad altri responsabilità proprie, avere degli eredi morali del soldato nipponico non sarebbe male; aiuterebbe a ripristinare l’ordine e restituirebbe attualità anche all’onore.