Il concetto di ponte suggerisce l’idea del collegamento tra differenti realtà. Il ponte sullo Stretto, invece, evoca esattamente – unico caso al mondo – l’idea opposta: divide, dilania, preoccupa e angoscia. La saga va avanti da moltissimo tempo e la presenza fisica del ponte è, per alcuni aspetti, addirittura irrilevante. Il ponte tra Scilla e Cariddi è un’opera pubblica che agita fondi e ricerche anche se non c’è: la sua assenza è produttiva almeno quanto la sua indesiderabile presenza, a giudicare dalle attività della società “Stretto di Messina”.
Dove un tempo abitavano le sirene, ora si agita una chimera cavalcata da forze politiche trasversali, sbandierata a fasi alterne come infrastruttura necessaria in un territorio privo di infrastrutture, col solito pressing dell’Europa lungo l’asse Palermo-Berlino: un ponte delle meraviglie che avrebbe potuto collegare Messina a Reggio Calabria ma anche a Reggio Emilia, stando alle pompose dichiarazioni di Silvio Berlusconi e alla fraudolenta posa della prima pietra di Altero Matteoli. Un’opera bella come il Fondaco dei Tedeschi ristrutturato dai Benetton e utile come il palazzone di Pierre Cardin, ma molto più costosa.
Questa è la storia di un ponte su cui nessuno osa mettere l’ultima pietra: eleganti campate sul nulla di terre ad alto rischio sismico, che getterebbero un cono d’ombra perenne sulla bellezza ostinata di due lembi di mare densi di fauna protetta.
Sembrava che la crisi ci avesse risparmiato, a sua insaputa, almeno da questo. Invece il consiglio dei ministri ha deciso di prorogare di due anni i termini per l’approvazione del progetto definitivo del ponte «al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle condizioni di bancabilità». Questa decisione, spacciata per un tentativo di non pagare una mostruosa penale al general contractor, rimette tutto in discussione, anche perché dà il via a «interventi infrastrutturali immediatamente cantierabili, a patto che presentino una funzionalità autonoma e siano già compresi nel progetto generale».
Mentre scopriamo di essere bancabili e cantierabili, cosa che già in sé può togliere il sonno, giunge un’altra notizia. Il presidente della società Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, ha annunciato che alcune big company cinesi sarebbero disposte a finanziare l’opera: si tratterebbe della China investment corporation (Cic) e della China communication and construction company (Cccc).
L’interessamento cinese, riferito dall’edizione palermitana di Repubblica, sarebbe già stato suggellato, qualche settimana fa, da un incontro a Istambul tra Giuseppe Fiammenghi, direttore generale della “Ponte Stretto di Messina”, e i rappresentanti della Cccc. Sempre la Cccc avrebbe presentato un piano, chiamato “Ulisse”, per realizzare infrastrutture nell’area compresa tra Gioia Tauro e Trapani, inclusi i leggendari raddoppi ferroviari attesi dall’epoca dei Borboni. Apprendiamo anche che una delegazione cinese si sarebbe recata in visita a Messina il 16 settembre scorso, per acquisire elementi utili alla realizzazione del ponte sullo Stretto…di Qiongzhou.
È bizzarro questo Ulisse dagli occhi a mandorla, che fa la sua provvidenziale comparsa prima che il governo prenda tempo sulla realizzazione del ponte parlandoci della sua bancabilità.
All’Ulisse d’Oriente e ai tecnici d’Occidente vorremmo però ricordare che non siamo bancabili né indiscriminatamente cantierabili. Un ponte maestoso e beffardo, che porta buio nelle poche ragioni di luce di questa terra difficile, non può sorgere in un’area esclusa dai piani di sviluppo del ministro Passera: un luogo che sta subendo inerte l’estinzione dei treni a lunga percorrenza e la minaccia di eliminare i pochi aeroporti superstiti.
Attendiamo impazienti l’opinione – finora assente come il ponte – di Rosario Crocetta. Ma il neogovernatore, che si dichiara erede di Pippo Fava dimenticandosi degli eredi di Pippo Fava, sembra distratto da molte altre cose. Non vorremmo dover dire che Ulisse ha fatto scuola, non solo in Cina: qui non c’è Nessuno.
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