Essere blogger – o giornalista – ti dà la fortunata opportunità di conoscere altre realtà. Altri e diversi modi di concepire l’uso della scrittura per esprimere uno stato d’animo, una persona, un avvenimento. Uno di questi è la poesia. È un falso luogo comune dire che noi siamo una nazione di poeti. Io, per esempio – pur usando la parola come mezzo di sostentamento – vanto una assoluta ottusità in fatto di creativa poetica. Una volta provai a rimare. Il risultato più che poetico fu patetico.
Eppure le statistiche degli editori parlano di almeno diecimila volumi di poesia editi in un anno. Libri che spesso vengono diffusi dagli stessi autori, non di rado porta a porta. Sovente i poeti si pagano il prezzo della stampa o altrettanto sovente vengono truffati dagli stampatori-editori. Ne conosco tanti. Molto di loro hanno risparmiato una vita intera, si sono negati il più banale dei vizi per coronare il sogno di una vita intera, un’insopprimibile necessità.
Non è immaginabile che nessuno di loro pensi guadagnarci qualche cosa, o addirittura campare di poesia. I poeti che oggi in Italia possano affermare di campare scrivendo versi rimati si possono contare sulla dita di una mano.
Nell’epoca del denaro e del consumo, la poesia è l’unica attività della mente che non c’entra nulla con l’uno e con l’altro. Come si direbbe oggi, è fuori mercato. Il poeta è un alieno. Nello slang giovanile è un “tipo fuori come un balcone”. I poeti godono e soffrono tutti allo stesso modo, in un regime di extraterritorialità dall’epoca in cui vivono. Invidio i poeti, tutti i poeti. Invidio il loro essere apparentemente indistinguibili. Ma solo apparentemente. Hanno un guizzo che io non ho. Sanno andare in posti a me preclusi, aprono porte a me sbarrate, vedono cose a me occultate. Il loro pensiero ha un motore ausiliario che lo spinge più lontano dal mio. Hanno una scintilla nell’anima che vale la pena di invidiargli.
È bello pensare a tutti i poeti. Ma proprio a tutti. Anche a quelli sconosciuti. Quelli di cui nessuno – tranne il paziente coniuge o il benigno vicino – leggerà mai una riga. Pensiamo per attimo a tutti loro. Non chiedono nulla allo Stato, non pesano sui contribuenti, non pretendono altro che poter leggere o far leggere i loro versi con la legittima speranza di non essere sbeffeggiati. Credetemi: è una nazione parallela e abbraccia tutti ceti sociali, tutte le religioni e tutte le età. Non è escluso che tra di loro si nasconda un Montale o un Edgar Lee Masters con nulle possibilità di essere scoperto. Scrivono le loro poesie nel cesso di casa o nell’ultimo banco di scuola o nel tavolo più nascosto della mensa aziendale. Scrivono versi e nel farlo il loro animo viaggia lontano, mentre il mio si rattrappisce in un angolo oscuro.
Onore a voi, poeti. E tanto di cappello...
Magazine Cultura
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