Il rapporto che il cinema, sin dai suoi esordi, ha intrattenuto col mondo dell’Opera è ben più complesso e sfaccettato delle semplici riproposizioni filmiche, filologiche o trasposte, dei capolavori melodrammatici e operistici in genere. Premesso che il cinema è stato tra i principali responsabili del declino dell’Opera, avendola sostituita in qualità di fenomeno culturale di massa, in quanto mezzo multimediale capace di adattarsi decisamente meglio ai ritmi frenetici del secolo breve, c’è da dire che già pionieri del cinema muto come Meliés e Porter trassero dal repertorio operistico soggetti per le loro sperimentazioni cinematografiche, probabilmente accompagnandone le proiezioni con brani o parafrasi delle stesse opere, dal vivo o attraverso il grammofono. Anche dal punto di vista recitativo, l’enfasi gestuale dei cantanti si dimostrò congeniale alla necessità degli attori cinematografici di colmare il vuoto dovuto all’impossibiltà dell’uso della parola. Ad ogni buon conto, durante l’epoca del muto, per ovvie ragioni, il cinema si limitò a riprendere le trame a tinte forti del melodramma, senza seguirne lo sviluppo librettistico e dello spartito; tuttalpiù, come detto riproponendo i brani più celebri come accompagnamento musicale in sala. Registi destinati a segnare la storia del cinema, come De Mille e Lubitsch, e attrici come Sarah Bernhardt e Francesca Bertini mossero i primi passi cinematografici con opere che si richiamavano al repertorio melodrammatico; persino Chaplin si cimentò in una versione parodistica della Carmen, opera regina tra le fonti d’ispirazione cinematografica (compresa una versione jazz del 1954 di Otto Preminger, regista anche del Porgy and Bess del 1959), fino ai tempi moderni, basti pensare ai tre film sulla sigaraia di Siviglia prodotti nel biennio 1983-84, diretti da tre maestri del calibro di Carlos Saura, Peter Brook e Francesco Rosi.
L’Opera fu protagonista anche dei primi esperimenti di sonorizzazione e già dai primi anni del sonoro si ebbero dei Film-Opera veri e propri, come L’opera da tre soldi di Pabst del 1931 (osteggiata da Brecht e Weill che ottennero il divieto di rappresentazione in Germania) e La sposa venduta di Max Ophuls del 1932, dall’omonima Opera di Smetana. Dagli anni ’40, l’Italia divenne il centro principale per la produzione di Film-Opera, con Carmine Gallone, maestro del Kolossal muto, a far la parte del leone, seguito da Mario Costa e, in tempi più recenti, da Franco Zeffirelli. Il repertorio di riferimento, naturalmente, era quello italiano, dal Belcanto al Verismo e a Puccini, con i migliori interpreti nazionali che comparivano come doppiatori o direttamente come attori. Degna di nota anche la produzione in Russia, sviluppatasi a partire dagli anni ’50, con la riproposizione del patrimonio nazionale, dalla grande stagione ottocentesca fino a Shostakovich. Nonostante la possibilità di oltrepassare l’artificio teatrale, grazie a ricostruzioni in studio più dettagliate e realistiche e alle riprese in esterni, e nonostante il valore delle maestranze, il Film-Opera risulta spesso didascalico, soprattutto a causa della difficile sintesi tra recitazione cinematografica e canto lirico, finendo sovente per deludere sia dal punto di vista cinematografico che da quello musicale. Ovviamente, non mancano le eccezioni e tra queste un posto centrale spetta al Flauto magico in svedese diretto da Ingmar Bergman nel 1975, ambientato in un piccolo teatro di tradizione, con un cast di valore sia nel canto che attoriale e con tanto di riprese dietro le quinte durante l’intervallo. Anche il Don Giovanni di James Losey del 1979 è da annoverare tra le sintesi più interessanti di cinema e musica operistica, così come la già citata Carmen di Rosi del 1984. Qualche perplessità in più l’ha destata Il flauto magico di Branagh del 2006, ambientato durante la prima guerra mondiale, con associazioni a volte deboli e riduttive, siappure in una confezione più che dignitosa. Il cinema si è occupato anche della nuova musica, come il rigoroso Moses und Aaron di Schoenberg, diretto da Straub nel 1975.
Ricapitolando, l’interconnessione tra cinema e Opera si è storicamente manifestata sotto vari aspetti. Innanzitutto, il richiamo alle trame melodrammatiche per la loro capacità di penetrare l’immaginario collettivo, presente sin dai primi passi della Settima arte. In secondo luogo, l’ambientazione della trama o di scene cruciali del film nel mondo operistico, con intenti biografici o di pura fantasia, spesso sfruttando l’aura premonitrice che aleggia tradizionalmente sull’Opera come chiave di volta della sceneggiatura cinematografica; senza dimenticare la devastante intrusione dei Fratelli Marx in Una notte all’Opera del 1935. Poi, naturalmente, il Film-Opera, trasposto o filologico, ripreso dal vivo o ricostruito in studio ed esterni, limitato allo sviluppo scenico o con intenti documentaristici; nonostante raramente abbia raggiunto livelli estetici eccelsi, è stato comunque uno dei più importanti veicoli di diffusione dell’Opera, specie nei piccoli centri, esclusi dal circuito operistico. Da ricordare anche la collaborazione diretta tra compositori e cineasti, inaugurata già ai tempi del muto da compositori come Mascagni e Strauss (Rosenkavaier di Robert Wiene del 1926) e sviluppatasi in tempi più recenti, fino alla proposta di partiture appositamente ideate per il cinema. In definitiva, le differenze sostanziali tra la tradizionale messa in scena e il Film-Opera stanno tutte nelle possibilità del mezzo filmico di indagare sui particolari, favorendo la fruizione introspettica e indebolendo quella corale.