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Operai della penna ridotti in mutande

Da Brunougolini

Operai della penna ridotti in mutandeÈ una delle tante storie che arrivano a questa rubrica. Lei non è una metalmeccanica e nemmeno una bracciante o una commessa di negozio. È, però, come un’operaia dei tempi moderni. Un’operaia della penna. Con un sindacato alle spalle, il sindacato giornalisti, che ha un bel da fare con i precari del settore, testimoniando le stesse difficoltà di una Cgil. Lei – la chiameremo Maria – non è più una giovinetta. Ha trascorso ormai parecchi anni girovagando da una redazione all’altra. Per approdare poi nella sede che aveva sempre agognato perché corrispondeva alle sue passioni civili. E aveva quindi acconsentito a «resistere» con i pochi soldi ricevuti, arrotondati con un secondo lavoro notturno da cameriera. È trascorso del tempo ma il posto fisso è rimasto un’utopia, anzi hanno finito col tagliare i già magri compensi. Altri sono nelle sue stesse condizioni, racconta, e il direttore generale li chiama, con macabra ironia, «fornitori». Eppure trattasi di un’azienda che sembra ispirarsi a criteri di equità e di giustizia.
Intanto un sito dedicato a loro (www.rerepre.org, rete redattori precari) ha pubblicato la prima pagina di un improbabile calendario intitolata «Redattori Precari vi dà il benvenuto: L’editoria ci lascia in mutande!». Nei testi compare un riferimento alla Mondadori dove, si racconta, il 50 per cento dei lavoratori è formato da precari.
Tra questi «operai della penna» vi sono donne (in maggioranza donne) che non aspirano magari al posto fisso perché lavorano a casa, talvolta con committenti diversi. Sono i traduttori editoriali. Una recente ricerca voluta dallo Slc-Cgil e condotta dall’Ires Cgil dell’Emilia Romagna ha scoperto che la loro retribuzione lorda annuale per il 59% è sotto i 15mila euro. Sono tra i nuovi poveri. Solo il 5,2% ha un rapporto di lavoro dipendente. Spesso hanno ritmi di lavoro da catena di montaggio, con scadenze prefissate e poco flessibili. Cosi il 76,6% supera le 40 ore lavorative settimanali. Non tutti sono contrari al sindacato visto che il 27,2% ha una tessera sindacale.
Torniamo così ai dibattiti di questi giorni che mettono in discussione l’operato del sindacato, anzi della Cgil (Cisl e Uil non si sa perché non vengono mai prese in considerazione). Non sembra, però, che le ipotesi in circolazione possano coinvolgere quelli come Maria o i traduttori privati di ogni tutela. Il «contratto unico» di cui si discute sembra essere riservato ai soli «nuovi assunti» assoldati a nuove esperienze di lavoro considerate «a tempo indeterminato» e quindi non più precarie, purché rinuncino all’articolo 18 ovverosia alla possibilità di essere riassunti in caso di licenziamento senza motivazioni. È vero che già ora quelli come Maria non godono dell’articolo 18 e possono essere «licenziati» quando si vuole. Quello che però inquieta è che la soluzione «unica» non coinvolgerebbe né Maria né l’esercito dei flessibili da anni in posizione precaria.
Tale esercito dei flessibili è anche la causa per la quale si infittiscono gli strali diretti alla Cgil, presunta unica colpevole (non i vari governi autori della moltiplicazione di norme nel supermercato del lavoro) di un tale stato di cose. Una specie d’impetuoso mobbing si dispiega così attorno al sindacato, accusato di non rappresentare più una parte preponderante del mondo del lavoro, malgrado gli sforzi della Camusso e del Nidil per ottenere una contrattazione che comprenda il popolo dei flessibili. È un impegno codesto che dovrebbe comprendere anche le categorie. Capita spesso, ad esempio, che in molti comparti industriali si firmino accordi aziendali unitari che comprendono importanti benefici sul welfare. Accordi che parlano di assistenza sanitaria, contributi per gli asili, per i funerali, per il diritto allo studio. Ottimi accordi che migliorano le condizioni di tante lavoratrici e lavoratori. Con un macroscopico vuoto: sono nella stragrande maggioranza diretti a tutelare coloro che godono di un contratto a tempo indeterminato. I precari, i flessibili, sono esclusi. Ecco: la contrattazione inclusiva lanciata da Cgil e Nidil dovrebbe coinvolgere anche le categorie (come in qualche caso già avviene) e fare in modo che quando si aprono ad esempio trattative aziendali siedano al tavolo negoziale anche rappresentanti del popolo dei flessibili. Senza lasciarli rimanere in mutande.
http://ugolini.blogspot.com/

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