Le opere precarie, cioè le opere edilizie realizzate per soddisfare esigenze temporanee o permanenti nel tempo, da parte dei richiedenti. Per tali interventi anche le procedure da seguire sono distinte tra loro.
In un caso reale, relativo alla presentazione di denuncia di inizio attività, con connessa richiesta di autorizzazione paesaggistica, per l’installazione di un gazebo in legno e la recinzione del terrazzo di un immobile di proprietà, la Soprintendenza ha formulato parere negativo e, in conseguenza di ciò, il Comune interessato ha espresso il proprio diniego all’originaria istanza, con determinazione dirigenziale.
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Nel merito, il richiedente ha dedotto che l’intervento riguarda la realizzazione di un gazebo “del tipo amovibile e realizzato con struttura portante in legno”; in virtù di questa caratteristica, a suo avviso, si sarebbe dovuto fare ricorso al procedimento di autorizzazione paesaggistica semplificata, ai sensi del d.p.r. n. 139/2010, Allegato I, trattandosi di “strutture stagionali non permanenti collegate ad attività turistiche, sportive o del tempo libero, da considerare come attrezzature amovibili”.
Mentre la Soprintendenza avrebbe erroneamente fatto ricorso alla disciplina di cui all’art. 146, comma 7, d lgs. 42/2004. Più in particolare, secondo il ricorrente, la Soprintendenza avrebbe omesso di effettuare l’unica valutazione realmente consentitale dal menzionato d.p.r. 139/2010, ossia quella relativa alla compatibilità dell’intervento con la disciplina di zona prevista dal Piano Territoriale Paesaggistico.
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Secondo la consolidata giurisprudenza, il carattere precario di un’opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non possono essere considerati quali opere destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee quelle adibite ad un utilizzo perdurante nel tempo, tale per cui l’alterazione del territorio – circostanza decisiva ai fini dell’autorizzazione paesaggistica – non può essere considerata irrilevante (T.A.R. Napoli, sez. III, 14 maggio 2013, n. 2505).
Da ciò consegue che, laddove si realizzi un manufatto destinato a un uso prolungato nel tempo, anche in assenza di immobilizzazione al suolo o al solaio, la precarietà dello stesso non dipende dai materiali impiegati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall’uso al quale il manufatto è rivolto e va quindi valutata alla luce dell’obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell’opera, senza che rilevino le finalità, ancorché temporanee, date o auspicate dai proprietari.
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In ogni caso, ai fini dell’autorizzazione paesaggistica, a differenza delle valutazioni prettamente urbanistico-edilizie, è irrilevante che la compromissione del vincolo sia realizzata per mezzo di opere stabili o precarie, in quanto risulta decisivo l’effetto di alterazione dello stato preesistente.
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