Ora e sempre (racconto lungo)

Creato il 25 aprile 2020 da Annalife @Annalisa

Verrà un tempo

Franco Cesana, partigiano

Prologo

[redazione Gazzetta di ***, gennaio 1975]

“Vedi un po’ se ne puoi cavar fuori qualcosa. La storia sembra interessante, è vero, e poi secondo me di questi tempi ci spremiamo un bel po’ di copie in più, è vero.”

“Dai, direttore, vedere, ho già visto, lo sai, ma per tirarne fuori qualcosa di serio devi darmi tempo, perché almeno un salto a Mantova e a Bologna lo devo fare.”

“Tempo, tempo. Vedi di non mettercene troppo, di tempo, è vero, che ti pago per quello che scrivi, no per il tempo che perdi. E tanto sarà una delle solite cose di famiglia patria e sacrificio, è vero, ma a me mi basta che mi riempi quattro belle colonne… Vai, vai, su…”

Interviste

[febbraio- marzo 1975]

[don Piero Giovanetti, parroco, 91 anni, Mantova]

– Mah, signor mio, ormai son vecchio. Brutti anni son stati, quelli, lo sa. E io sempre vicino alle mie pecorelle, senza poter…

– No, certo, loro no. Erano ebrei. Però li conoscevo. Conoscevo la famiglia, sa. Una buona famiglia, mi sembrava, ma come si fa a giudicare, così, da lontano, eh? E poi, signor mio, cosa vuole, buon giorno e buona sera, qualche volta si parlava del tempo. O dei tempi… ma con discrezione, eh, stavo attento, sempre attento.

– No, io mi fermavo col padre. Felice Cesana, sì. Passava di qua, andava in sinagoga, e se era presto si fermava a far due chiacchiere, perché abitava in centro, sa, proprio in Piazza Broletto, conosce? Lui poi girava giù, mi sembra via Bertani ma, signor mio, meglio che controlli perché ogni tanto queste amministrazioni sembra che l’unica cosa che gli importi è di cambiar nome alle strade, che poi i vecchi come me, che ce ne sono, sa?, poi i vecchi come me non san più da che parte voltarsi.

– Già, aspetti, lei voleva sapere della famiglia. Dunque, andavano di là, alla sinagoga di via Govi, perché non va vederla, eh? Documenti, no, non ne trova. Mi sa che di quello che importa a lei, caro il mio giornalista, non c’è rimasto molto. Cose amministrative, sì, certo, ma storiche, eh, storiche, no. Guardi, se non mi ricordo male, che un po’ di memoria questo povero vecchio parroco ce l’ha ancora, se non mi ricordo male, trova fogli storici solo fino all’Unità.

– L’Unità d’Italia! Perché, ce n’è un’altra? Cioè, magari bisognerebbe farne un’altra, sì, di Unità d’Italia, coi tempi che corrono, che invece di unirci, siam sempre più divisi, anche a Mantova, sa. Invece, allora, anche se il signor Cesana era ebreo, ci si parlava, si conversava, si scambiavano idee. Almeno negli anni che è stato da queste parti. Perché lui veniva da fuori, sa? Sempre per sentito dire, eh, io non c’ero nemmeno qui, prima della guerra…

– La Grande Guerra, la prima, ci mancherebbe. Alla seconda il povero signor Cesana non ci è arrivato, sa? Comunque, è venuto a Mantova, e quando si è maritato stava in Broletto, poi dopo un anno ha cambiato casa, forse perché la moglie aspettava il primo. Magari avevano bisogno di una casa più grande, vai a sapere.

– Ma no, ma no, ha ragione, ho fatto lo storico anch’io, stia tranquillo, adesso quello che so le dico. Guardi, ce n’erano sei, di sinagoghe. Sei, capisce? Quasi più che parrocchie, eh eh eh… ma quella di via Govi credo fosse la più bella. Si figuri che l’hanno fatta tale e quale una del 1400 o giù di lì. Vada, vada a vederla, che la fanno entrare: è monumento nazionale, e di sopra, all’ultimo piano, trova tutti gli archivi, se le servono. Ma secondo me, no.

– No, che non le serviranno molto, intendo.

– E ma cosa vuole, caro signor mio, io più di così non so dirle. E comunque oggi, gente che c’era allora, mi dice dove la trova? Solo le vecchie gramigne come me hanno resistito, eh eh eh…

[Luigi Colturani, impiegato anagrafe, anni 52, Mantova]

– Precisamente. È un documento che le posso dare perché sono passati i settant’anni, e questo signore è del 1886. È come uno stato di famiglia. “Foglio di famiglia”, c’è scritto, ma è lo stesso. Questo è del padre, eh, è il censimento del… del marzo ’31, vede i timbri?

– Allora, guardi, c’è il capofamiglia, la moglie e altri due figli. E poi c’è… ecco, Franco, che è del ’31, nato in settembre.

– Precisamente. L’hanno aggiunto dopo il censimento. Ora le faccio vedere un’altra correzione: qui, del padre, c’è scritto celibe, e dopo hanno aggiunto: marito di ecc., e la data, 22 gennaio 1917. Pensi che il 22 gennaio è la data di nascita di mio padre. Comunque, guardi anche sopra, dove si segnava la condizione o la professione, anche qui è stato corretto, vede?

– Sì, precisamente. Se uno era proprietario, e dove, se aveva titoli di nobiltà, gradi accademici, diplomi, decorazioni, e anche la data del relativo documento, tutto andava aggiunto. Altrimenti, la professione. Questo era negoziante di chincaglierie e mercerie, guardi, e poi, di seguito, viaggiatore di commercio. Ma a lei interessa il ragazzino, vero? Questo, Franco. E perché, se non sono indiscreto? Tanto oggi è una noia, vede? Se vuole…

– Ah, sì? Morto così giovane? Brutta roba, la guerra. Ho un figlio di quell’età, io. Ha gli esami di terza media, quest’anno, e poi vediamo, non è che abbia tanta voglia di studiare, sa com’è con i ragazzi, oggi. E questo, invece, a dodici anni se l’è presa su ed è andato in montagna? Un bel coraggio! Oggi non hanno nemmeno voglia di piegare la schiena su un libro, figurarsi andare in guerra! Comunque… Ora le mostro il foglio individuale. Ecco, vede, sul foglio individuale c’è tutto: nome del padre, della madre, dei fratelli, e tutti i cambiamenti di indirizzo, da Piazza Broletto in poi. Anche a Cremona, nel ’27, è segnato qui, vede?, e per Bologna è sul lato. Legga di lato: emigrato a Bologna il 10 novembre 1931.

– No, il lavoro del padre è segnato solo in alto: negoziante, poi viaggiatore di commercio. Cè il timbro “fallito”, vede? Può darsi che il negozio andasse male, ma anche che volesse cambiare. Sa quante volte volevo cambiare io? E invece sempre dietro alle scartoffie…

– No, certo che no, non è stato per via delle leggi: le leggi razziali, guardi, sono del ’38. Non è stato per quelle. La famiglia di questo Franco… Franco Cesana, invece, sì, se n’è andata da Mantova nel ’31. Secondo me…

– Cosa? Beh, diciamo che è una specie di passione. Mi sarebbe piaciuto fare lo storico, il ricercatore, così, appena posso, qualcosa leggo. Le leggi razziali un giorno me le sono lette tutte. Cose da matti, eh?

– Precisamente, appunto, ecco, sono del 1938. Così,  lo so che non vale niente, ma la mia idea è che fossero motivi suoi, se ha cambiato mestiere e se poi è fallito.  Fino ad allora…

[Romano Collini, maestro elementare, pensionato, 71 anni, Mantova]

– Cosa vuole che le dica, caro signore, la mia memoria non è più come una volta… Io ho una teoria: dietro ogni parola, e dietro a ogni faccia, c’è incollato un bel nome, e finché si è giovani basta poco. Si gira il cartoncino con la faccia, o con la figura che si ha in mente, e, voilà, si trova l’etichetta del nome. Ma, cosa vuole, alla mia età molte etichette si sono scollate, e se giro i cartoncini trovo vuoto. O il contrario, e anche se lei ora mi dice il nome, io non trovo il cartoncino con la faccia giusta.

– Sì, come no! Proviamo lo stesso. Che periodo le interessa?

– Ma guarda… Il ’37! Ma sa che è stato il mio primo anno lì? Mi ricordo, mi ricordo. Ero agitatissimo, e il Direttore non ha fatto tante storie: sono arrivato, mi ha detto la classe e via. Ho dovuto far da solo, e alcuni ceffi, lì dentro, sembravano più vecchi di me, che ero mingherlino e basso.

– Sì, sì, certo, capisco, Cesana, Franco Cesana, ma, guardi, io non me lo ricordo proprio. Cioè, certo, mi ricordo quando poi gli hanno dato la medaglia, e allora mi hanno detto che era stato nella mia classe, ma, per me, allora, era un bambinetto come tutti gli…

– A quell’età, cosa vuole, sembrano tutti uguali. Anche perché, a volerla dire tutta, erano proprio dei mocciosi, e sempre più ogni anno che passava. Non si poteva dir niente, che subito frignavano. E poi capivano la metà di quello che capivo io alla loro età, e si faceva una fatica a spiegare le regole più semplici o la storia, che metà bastava. Per questo sono stato contento, quando mi hanno cambiato incarico e me ne sono andato, e anch’io con una medaglia, la medaglia del Duce, che non era cosa da tutti i giorni. Lo sa quanti hanno preso la medaglia, nel ’44?

– Cosa?

– Ah, sì, scusi, il Cesana. Ogni tanto mi perdo. Ma comunque non so come aiutarla. Il Cesana Franco. Un bambino come gli altri. Né bene, né male. Senza infamia e senza lode. Se poi lei dice che ha cambiato scuola e si è trasferito a Torino, cosa vuole che me lo ricordi?

– Razziali… razziali… Come lo dice lei sembra una brutta parola, ma allora le leggi eran quelle, e se la famiglia l’ha mandato a Torino avrà avuto anche i suoi vantaggi, no?

[Davide Sermoneta, rabbino, 56 anni, Bologna]

– Grosso modo le cose sono andate così: la famiglia si è spostata da Mantova a Bologna, e poi sull’Appennino.

– Zona di Modena, più o meno, un po’ qui e un po’ là, e solo con la madre, perché il padre era morto nel ’39.

– Sì, la residenza dal ’43 era Bologna, e i due grandi lavoravano, ma poi si sono spostati ancora. La paura era tanta, si può immaginare, si pensava che in un paesino si era più tranquilli.

– Guardi, il primo fratello aveva studiato all’istituto tecnico commerciale, era impiegato. Nel ’43 aveva venticinque anni, che allora era essere già uomini, ma è stato il secondo che si è presentato alla brigata. Questo me lo ricordo bene.

– Beh, io ne avevo solo 19. Lelio, il fratello, aveva 23 anni, aveva studiato al tecnico industriale, faceva il rappresentante. Gliel’ho detto che, allora, a quell’età, e anche prima, si era già uomini. Comunque. Lelio ha seguito la famiglia in montagna, e poi è venuto a presentarsi alla brigata Scarabelli, la mia, che era nella divisione “Garibaldi” di Modena.

– Non lo so che cosa gli è venuto in mente a Franco, e nemmeno perché Lelio se lo sia portato dietro. Magari se lo è trovato là. So che Marcello… Marcello era il nostro comandante… non lo voleva con noi. Era pericoloso. Ma Franco sapeva convincere. Guardi, aveva appena dodici anni, ma era alto, robusto, sembrava uno di diciotto almeno, e alla fine ha convinto Marcello, e si è fermato con noi.

– Era la nostra staffetta, il portaordini. Lo diceva, che gli spiaceva per la madre, che era rimasta da sola, là in paese, ma che prima doveva sistemare le ingiustizie, poi pensare al resto.

– Sì, forse… ma era uno intelligente, e magari sarebbe stato un ragazzino qualunque, in un altro momento. Però pensi a quello che era successo: la famiglia che scappa di qui e di là, la miseria, l’incertezza, l’agitazione continua. E lui che già aveva cambiato due, tre scuole: prima buttato fuori dalle scuole pubbliche, e aveva solo sei anni; poi, fuori dall’orfanotrofio israelitico di Torino, perché dopo l’entrata in guerra è stato subito chiuso, e lui mandato a Roma. E nel ’43 tutti sfollati a Crespellano, e… sì, vicino a Modena… e sempre con la paura di essere denunciati o di essere presi. E gli spostamenti che hanno dovuto fare sono serviti a Franco per vedere i partigiani, e come si erano organizzati. A farsi un’idea, insomma. E credo a scegliere subito da che parte stare. Io non lo so se è vero, ma tra noi raccontavano che una volta era andato a casa sua un partigiano, e aveva bisogno di scarpe, e figuriamoci se c’erano delle scarpe in più, da quelle parti. Allora, dicono che Franco ha preso e gli ha dato le sue, così, senza dire né aba. Non lo so se è vero, ma, a pensare a lui, a come era, insomma, sembra vero. L’avrebbe fatto, intendo.

– Eh, dunque… Di sicuro io so che ha preso su, è scappato ed è venuto alla brigata. Con Lelio che già combatteva, e Franco che ha cominciato a partecipare anche alle azioni rischiose. Però a sua madre pensava sempre. E se va a Mantova, guardi, la trova, una lettera che le aveva scritto.

– Al Museo del Risorgimento. Io ci sono andato, a vederla. E guardi, la scrittura sembra ancora quella di un bambino, ma lui era più grande. Si cresceva in fretta, da quelle parti.

[Franco Cesana, lettera alla madre, agosto 1944, luogo incerto]

Carissima mamma,

dopo la mia scappata non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato resoconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo, poi mi fermai a dormire in un fienile in località Osteria Matteazzi. Al mattino, svegliandomi con la fame, ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con delle more. Arrivai a Gombola verso le nove e di lì cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di una qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai nella detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta? Presentandomi a Marcello fui assunto e siccome ho studiato fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra Gombola. Così non ti devi impensierire per me che sto da re. La salute è ottima; solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente ti avverto che non ho detto quella cosa che tu sai e che mi hai fatto giurare. Così chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito. Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro, Franco

N.B. salutami pure Lelio e digli di non fare il cattivo. Ti raccomando, appena ricevi la mia Bruciala. Ancora ti saluto e ti abbraccio.

[anonima, 41 anni, Pescarola]

– Perché ho ancora paura, ecco perché. E certa gente è ancora in giro, beata, sfacciata, e sembra che tutti si sono dimenticati. Ma io certe cose me le ricordo bene, anche se ero piccola.

– Dieci anni, avevo, e mia mamma mi aveva spedito dalla nonna, perché si sentiva più tranquilla per me. Proprio! C’era proprio da star tranquilli, con i partigiani che giravano, e i tedeschi che rastrellavano, e certa gente!, che si sapeva benissimo da che parte stava… Comunque, noi ci hanno lasciato abbastanza in pace, per quello che ne so, anche se certe volte il nonno spariva e spariva anche la poca roba che avevamo in casa, ma nessuno è mai venuto a ficcare il naso. Nemmeno quella là.

– Eh…! Quella là! Quella là era una che lo sapevano tutti che faceva la spia per i tedeschi, e la nonna me lo aveva detto di starci attenta. Buongiorno e buonasera, ma il resto, citu mosca. E io così facevo.

– È successo che io ero seduta lì, su quel gradino lì, vede?…

– Sì, perché poi io non sono più tornata indietro, nemmeno dopo la guerra. Sono rimasta coi nonni, e poi mi sono anche sposata, qui, e qui rimango, chi me lo fa fare di spostarmi?

– Sì, dunque, ero lì, sul gradino, a giocare, e questi due ragazzi sono venuti avanti con un bel sorriso e mi hanno chiesto la strada e io ho risposto. Dovevano tornare verso Gombola. E io ho spiegato. Ma si vede che di una bambina non si fidavano e si sono fermati là in fondo, e han chiesto proprio a quella là.

– Sì, sì, proprio. La spiona. E son stati lì un po’ a parlare, con lei, perché, ce l’han raccontato dopo, quei ragazzi volevano sapere se in giro c’erano tedeschi, che magari erano pronti ad attaccare i partigiani. Ecco, hanno chiesto proprio a una giusta. E io vedevo che lei rispondeva e faceva segno, e loro hanno salutato tutti contenti e sono andati avanti.

– E che cosa potevo fare? Per me quella là era un po’ una strega. Comunque, ferma ferma non sono stata: sono andata nell’orto a chiamare il nonno e gli ho detto quello che era successo. Ho visto che il nonno faceva la faccia preoccupata, e poi metteva gli scarponi e usciva, ma dopo poco è tornato ed è andato a parlare con la nonna, di sopra. Per me la cosa è finita lì.

– Sì, che l’abbiamo saputo subito, qualcuno dice che ha sentito la mitraglia, ma figuriamoci…

– Ma… ma cosa potevamo fare? L’unica cosa che potevamo fare era arrampicarci per dieci chilometri, andare a prendere i morti e prenderci magari una schioppettata anche noi. Così siamo rimasti qui.

– No, questo l’ho saputo alla fine della guerra, che era venuto giù il comandante a prenderlo, il corpo, e che il piccolo era uno dei due che si era fermato a chiedere, e aveva solo tre anni più di me. Dicono che l’hanno riportato a sua mamma proprio nel giorno del suo compleanno. Tredici anni, faceva. E che lui al pomeriggio ci era appena stato, da sua mamma, e le aveva detto: torno a trovarti il giorno del mio compleanno. E infatti ci è tornato. Morto.

[motivazione medaglia di bronzo al valor militare, decreto del Presidente della repubblica Giovanni Gronchi, 1955, Roma]

Adolescente pieno di slancio e di spirito patriottico, appena tredicenne si arruolava nelle formazioni partigiane della zona segnalandosi per ardimento e sprezzo del pericolo in missioni di staffetta e in numerose azioni di guerra. Nel corso di un rastrellamento si lanciava con decisione e coraggio contro un reparto avversario che cercava di infiltrarsi nello schieramento, ma colpito a morte cadeva da eroe, incitando i compagni a persistere nella lotta. Piciniera di Gombola, 14 settembre 1944.”

[Ada Basevi in Cesana, anni 78, Bologna]

– Quel giorno lì, lui mi ha detto che non poteva vivere come se fosse da solo. Neanche a  dodici anni. E che lui aveva degli ideali, e li voleva conservare. Verrà un tempo, mi ha detto, che saranno di nuovo possibili. E ci credeva davvero, sa? Anche se era così piccolo.

– Me lo hanno detto tante volte, che è stato il più giovane, e che volevano ricordarlo, che meritava di ricordarlo.

– Sì… anche una strada, a Modena. Poi c’è una scuola elementare, vicino a Mantova, che porta il suo nome. – Certo, anche la medaglia. Ma non dà soddisfazione, sa, abbracciare una medaglia.


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