“I want to feel both the beauty and the pain of the age we are living in. I want to survive my life without becoming numb. I want to speak and comprehend words of wounding without having these words become the landscape where I dwell. I want to possess a light touch that can elevate darkness to the realm of stars.”
”Voglio sentire sia la Bellezza che il Dolore dell’età in cui viviamo. Voglio sopravvivere alla mia vita senza diventare insensibile. Voglio parlare e comprendere parole di ferite senza che esse diventino il paesaggio in cui abito. Voglio possedere un tocco di luce che possa elevare l’oscurità al regno delle stelle.”
Terry Tempest Williams
Arthur Hacker – Imprisoned Spring
In un tempo che mi appartiene forse più di ogni altro in questa fase dell’esistenza, ho sentito scuotersi dentro me il fruscio del risveglio e dell’abbandono. In un tempo che mi appartiene eppure mi è così distante, ho voluto cercare di afferrare con forza ogni più piccola vibrazione e farla diventare parte di me. Il filo conduttore di questi mesi invernali bui e lunghi è stata la Bellezza, che come spesso mi accade rastrella la mia vita senza curarsi se ancora vi sia spazio dentro me per accoglierla, ma anche il dolore, la bruttura atroce di certe crudeltà, la malevolenza dell’umanità, la guerra, i morti, le speranze volate via. Ogni frammento ha finito per costituire una strana forma di Bellezza. Una Bellezza cieca e sorda. Ho ascoltato senza sentire, ho guardato senza vedere, ho scritto senza posare le dita sulla tastiera, ho dipinto senza colori, ho amato senza amore, ho vissuto senza respiro. In ogni momento in cui cercavo la via per emergere non trovavo altro che silenzio, o meglio un ostacolo invisibile che mi impediva di esternare un’emozione, una parola, una linea sulla tela. Ma sentivo, vedevo, scrivevo, dipingevo tutto. Era tutto già depositato dentro me come un pacco voluminoso pronto per essere aperto. La sofferenza, la solitudine e l’inetta auscultazione dei versi scritti nella mia testa iniziavano ad agitarsi come fossero dentro una bolla di vetro; erano si vagamente visibili, udibili, ma non riuscivano ad uscire fuori. Ho iniziato a guardare/sentire la tv: film, programmi di intrattenimento, sciocchezze senza fine in un mare anestetizzante; ho ritagliato lentamente figurine di carta, poi ho acceso la radio e ho ascoltato musica da un’isola lontana. E un giorno ho scostato la tendina e ho visto che fuori le cince erano tornate. Gli uccelli tornano sempre prima o poi, ti vengono a trovare e ti raccontano quello che hanno visto nel loro infinito vagabondare in cieli stranieri. Sul finire dell’inverno, nell’accumularsi delle coltri grigie sui tetti e sulle colline, brillano le viole sul mio davanzale, i tromboncini gialli e le primule spuntano timidi nei prati. Era dunque necessario trovarsi ad affrontare il vuoto per trovare il pieno? Era dunque indispensabile camminare sul Fuoco per poter sentire l’erba sotto i piedi? E attraversare il buio fitto per trovare la luce. Di certo so che la bolla s’è crepata, e dentro ora siede contento un giardino in miniatura, con piante, fiori, sassi, muschio e vita. Non potendo nè leggere nè fare molto altro per via di un’ infiammazione agli occhi ho iniziato ad immaginare di essere io stessa il libro che avrei voluto avere tra le mani, io stessa la storia che avrei amato leggere. Affrontando la mia nuova condizione, mi fortificavo con l’esempio di Borges, che aveva dovuto affrontare nella cecità l’ultimo quarto della sua vita o di Bunuel, costretto a misurarsi con la sordità. Sulle prime il teatrino delle immagini vagava stordito sul foglio della mente, poi poco a poco l’intensità dei contrasti ha iniziato ad emergere e ho visto, sentito distintamente che io facevo parte di cose, persone, vite, storie che non erano le mie, eppure le sapevo a memoria, come fossero state sradicate da un cespo verde in un quadrato di terra fertile e impiantate in me con la perfezione di un miracolo. Cos’è poi in fondo un miracolo se non la palese apparizione di una bellezza nascosta? E la Grazia di un volo, cos’è mai la Grazia di un volo se non un ritorno a se stessi ancora e ancora? Ora, la Bellezza.
§
Così sale un arcobaleno in quota -
l’occhio è un mirino, a fissarlo non lo scorge -
inchiodato al cielo tra gola e vetta
come a immortalar se stesso.
Così sono io, l’occhio e il mirino -
il volo del gipeto che trafigge l’iride -
ospito domande immense nelle vene
senza arrestare lo schiocco.
Nulla è sublime più che attraversare il mondo
lasciandolo immutato.
Fosca Massucco, da L’occhio e il mirino, Editrice L’Arcolaio 2013
*
Il becco d’una cincia
Canne del torrente prigionia marcendo si stende balbuziente
ché gli s’incastra il becco d’una cincia solita presenza di supplizio.
Fotografie e immagini dal titolo i tuoi contatti d’insieme a lei
forse chi sia che non ha dimenticato la sua ala spezzata ma aperta.
Non è quota a scendere la dolcezza chi del tutto bene risponde sì
all’asprezza abituato per allinearsi al prato per tracce di sentiero.
Circolare e perfetta la bocca acqua e terra più bella che alla radice è sfora.
Qualche rivolo d’acqua scende nessun altro.
Luigi Diego Eléna
*
Daccapo
Là, sul cuscino,
la testa germogliante
serpi di glicine sbrecciante e là,
oltre la finestra, dove la dura grandine
è in calore e il sole un mutilato e persino là,
scagliati fin sulla porta del tuo Niagara,
parlo di quelle quattro sedie e un tavolo
ottocento di cui alfine ti sei accontentato,
persino là, ragliando come asini testardi,
sono venuti a cercarti i giorni di Marzo.
Ai preludi emozionanti
come nelle trincee fallite,
al fuoco confortevole di poche frasi
e persino là, dove più assurdo cade il tramestio,
disinvolti e rotolanti, daccapo nella tua vita,
sono tornati in forma di vento e d’angora bianca.
Vera D’Atri
*
Nella macchia
Errai nell’oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra querce rigonfie di galle;
errai nella macchia più sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava l’azzurra viola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!
Giovanni Pascoli
*
Da qualche giorno siamo più bianche
sbiancate da pixel invisibili e ultravioletti
le città sono piene e immortali, noi sgorghiamo
e stiamo in quasi ogni giornata
tutte arroccate su scarpe nuove e rosse
che sciolgono i tacchi a sufficienza nel vento a raffiche
un intenso vortice di passione defrontiera
siamo così coraggiose da incoraggiarci
altezzose come regine e api nomadi
camminiamo sui fossili di primavera
il disgelo è su ogni sasso e sopra i marciapiedi pietrosi giriamo
come tanti passati remoti
in cui ci hanno coniugate
la passione è corta ma la memoria è lunga
ed è già andato via tutto
nulla ci appartiene fino alla fine
le parole, i fiori, i profili di lei, di lui
l’amore è la terapia pratica degli scompensi
ipocentro di tutto quello che basterà
che ci avvicinerà all’aldilà di noi stesse,
femminile maschile coro neutro
ci dovremmo ricomporre pure
per bastarci abbastanza
o vive fra le incursioni delle guerre
o sdraiate come le pietre in fondo alle terre
rifiorendo comunque.
Simonetta Sambiase (Inedito)
Julia Barello, Swoop, Galveston Center for the Arts,
Galveston, Texas
2008
MRI film, steel
10′ x 12′ x 8″
http://www.juliabarello.com/index2.html