
Il cyberspazio è un ventre materno, attutito e protetto, iperfunzionale e domestico come una limousine. Casa-cervello che vive osservando il mondo, internizzandolo e addomesticandolo: la claustrofobia è uno spettro del passato, la claustrofilia è un modus vivendi (e non siamo di fronte, nel 2012, a svariati esempi di questa “libera” reclusione dello sguardo, di quest’ossimoro liquido che abita “Cosmopolis”, “Amour” fino, ovviamente, a “Io e te”?).
Vive nel nulla la morte degli esterni: abbiamo fatto del mondo una scatola d'interni, abbiamo creato nuove superfici e nuove barriere che ci cullano proteggendoci dall’indifferenza e dalla solitudine. Una nuova pelle ci separa dal mondo. Ed ecco avanzare per le strade delle metropoli limousine color panna, tutte identiche e rarefatte. Come corpi metallici, artificiali e meccanici, sensuali e domestici, ospitano le non-vite dei loro abitanti. Il mondo oltre il finestrino appare distante ed ovattato, ormai ha perso completamente credibilità.

L’humanitas muore schiacciata dalla forma.
Ma tutto questo iperrealismo così aumentato e patinato, così perfetto, non può che esigere un’imperfezione, un errore di calcolo (tema dominante in tutta la filmografia Cronenberghiana, da “La mosca” a “Inseparabili” fino a “History of violence”), e quell’errore, guarda caso, si trova proprio all’interno del corpo: Eric ha la prostata asimmetrica. Questo non può che portare al collasso fisico e mentale, alla caduta necessaria e inoppugnabile di un sistema: Eric deve uscire dalla limousine, liberarsi da ogni protezione (uccide la sua guardia del corpo) e scontrarsi col suo doppio, con la sua nemesi originaria all’interno di un altro, ennesimo interno che tanto assomiglia a una discarica. Ed è nella sospensione di un grilletto che esita (esita!) a premere, negli sguardi per una volta vivi e nel riconoscimento nell’altro, che Cronenberg interrompe il suo film. Con questa significativa cesura Cronenberg radiografa come nessun altro la nostra contemporaneità, che non conosce più finali ma solo attese e sospensioni, ennesime “non vite” sul baratro della stasi.
“Dove finiscono le limousine di notte?” è la domanda di “Cosmopolis”. E, di conseguenza, Leos Carax pare rispondere “A Holy Motors”.

Sulla limousine accanto a quella di Eric Packer si muove Monsieur Oscar (Devis Lavant), performer all’interno di una realtà così assurda da sembrare irreale. Ma qui la limousine assume la dimensione vaginale del camerino di un attore, dove tanti, nuovi personaggi prendono vita. Perché Oscar non è nessuno e, di conseguenza, può essere tutti vivendo le vite degli altri. Una volta uscito dall'automobile "diventa" un mostro, una barbona, un padre di famiglia, un killer professionista, un anziano sul letto di morte. Ma chi è poi veramente?
Orfani di un’identità dimenticata, laddove ogni luogo è morto, si realizza l’incubo della vita come non luogo per eccellenza. Oscar arriva perfino a vedere “se stesso” e a uccidersi.
E' il (non) protagonista di un’odissea cinematografica che contamina generi differenti, frammenti di storie che non hanno più il tempo – né il bisogno, né il senso – di svilupparsi, di vivere e protrarsi. E’ nel movimento frenetico all'interno della Ville Lumière che avvertiamo come non esistano più case né narrazioni. Carax racconta la nostalgia per le storie che non potranno più essere e poi, anarchico come sempre, apre i viatici del labirinto, tornando ad (in)abitare una casa di scimmie. Queste creature sembrano guardarci da lontano e ricordarci che loro non si sono mai mosse ma sono sempre rimaste lì, in attesa che potessimo guardarle e capire. E così gli sguardi si scambiano in quel gioco di specchi e di rimandi che trova le sue origini ai tempi delle caverne.

Ma allora, in assenza di qualsiasi essere umano, succede qualcosa di completamente inaspettato: emerge un impossibile, dimenticato sentimento di compassione, di sofferenza condivisa, ma a provarlo non sono più gli uomini ma le stesse limousine, tracce di materia che, molto presto, verranno sostituite da qualche nuovo, invisibile simulacro.