Magazine Cinema
“Vivete la vostra vita in tempo reale – vivete e soffrite direttamente sullo schermo”
(Jean Baudrillard, “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?”)
Non capisco molto i termini della discussione creata intorno a “Reality”, sul fatto che si tratti o meno di un film sul Grande Fratello. Dire che l’opera di Garrone non sia un film sul Grande Fratello – inteso come grande occhio che sorveglia le nostre case e le nostre vite registrando le apparenze e appiattendo le identità – è come dire che il mondo non sia un Grande Fratello. Trovo ancora più fuorvianti le critiche di chi ha scritto che si tratti di un film inattuale, che la moda del GF e del reality è ormai sorpassata. Mi pare assolutamente il contrario. “Reality” si presenta, dall’inizio alla fine, ma anche in ogni fuori campo, digressione o frammento acustico, come un film sulla Realityzzazione del mondo, sulla scomparsa di una realtà defraudata a vantaggio di una fitta rete di simulazioni, sull'enorme corto-circuito tra televisione e vita quotidiana che ha investito corpo e mente facendo dell'ansia e della paranoia le condizioni vitali dell’uomo schermo.
Come profetizzato da McLuhan e poi ripreso da Cronenberg, “Videodrome” ed affini, quello che si sta ormai verificando è la crescita di un nuovo organo nel cervello: lo schermo. Lo schermo come unica realtà liquefatta, assimilabile e vivibile; questa neorealtà è gioco e simulazione, esperienza interattiva e videoludica, ma soprattutto test perpetuo: entrata e permanenza in questa mascherata roulette russa impongono determinati codici comportamentali, continue messe alla prova pena squalifiche ed estromissioni. Ecco quindi la vicenda di Luciano, il protagonista di “Reality”, che vive in un’attesa che è già, a tutti gli effetti, show: si sente osservato, inseguito, vigilato, la sua esistenza diviene tele-esistenza in cui dover dimostrare continuamente, tenacemente, la propria forza e il proprio tasso-interesse. E’ evidente che la realtà perda completamente consistenza, che la vita di prima non abbia più alcuna importanza e valore ma che, anzi, si debba cancellarne le tracce: l’azzardata vendita della pescheria è il divorzio simbolico della vita a beneficio della simulazione.
Tutto diviene un enorme teatro di posa in cui allestire il proprio show quotidiano. Viene perfino il dubbio se la realtà di prima, quella apparentemente esente da paranoie e da realityzzazione, sia effettivamente più vera e meno simulata: ambienti fatati, carrozze e cavalli, matrimoni pacchiani, case senza casa, pescherie, piscine, Cinecittà e Napoli, madri, padri e figli, tutto è destinato all’implosione nel gigantesco rebus della simulazione. Nessuno è più al sicuro. Luciano è l’assente ingiustificato tra grilli e robot da cucina, canto del cigno di una cultura, quella italiana, allo sbando tra kitsch e scenari horror.
Jean Baudrillard scriveva nell’illuminante “Delitto perfetto” (quello scacco matto terribile ma geniale in cui la televisione ha ucciso la realtà senza lasciarne tracce): “Ogni esistenza è tele-presente a se stessa. La tv e i media sono usciti da tempo dal loro spazio mediatico per investire la vita ‘reale’ dall’interno, assolutamente come fa il virus aggredendo una cellula sana”.
Cortocircuito negli occhi e nel cervello, vedi e sarai giudicato. Seguiamo (guardiamo, spiamo) i primi piani di Luciano mentre si guarda intorno attento a non sbagliare un colpo. Quello che testimonia “Reality” è anche ciò che raccontano, in modi diversi, film completamente distanti che abbiamo già visto-analizzato precedentemente: ritornano ancora una volta i vari "Cosmopolis" e "Holy Motors", ma si potrebbero trovare qui perfino i nostri "E' stato il figlio" o "Corpo celeste" (come testimonianza di circoli chiusi e paradossali dove perfino la religione è stata invasa dal germe televisivo producendo volgarità imbarazzanti sulla scia di "Mi sintonizzo con Dio" cantata a squarciagola in Chiesa). Il punto è il seguente: il mondo è chiuso, manipolabile, percorribile, decodificabile numericamente e osservabile in tempo reale. Ogni innovazione tecnologica, ogni nuova manifestazione di progresso, ha finito per anestetizzarci permettendo ai virus della contemporaneità di disumanizzarci. L'umanità permessa - perchè maggiormente prevedibile - è solamente quella volgare e televisiva dell'apparenza, tradotta in urla parossistiche e gesti esuberanti. In quest'ossessivo regime di panvisione non c'è più spazio per un'aldilà ma solo per un aldiqua filmabile ventiquattro ore al giorno trecentosessantacinque giorni l'anno.
La grandezza di "Reality" (e di Garrone in generale) è quella d'intuire come la commedia nostrana non possa che tradursi in risata isterica e patologia degenere. Garrone ci trasporta all'interno di centri concentrici partendo da scenari fatati, Viscontiani/Felliniani e finendo a fare (grande) cinema persino tra le file di attesa per i casting a Cinecittà, in una discoteca o in una pescheria. Si conferma così uno degli ultimi, grandi talenti visionari italiani, capace di citare e rinnegare, di avanzare un discorso teorico per poi finire nei terreni ambigui del sogno e dell'invisibilità.
…e saper reinventare, nel deserto di una stanza, il cinema. Avviene proprio questo in quel finale terribilmente appagante e tristissimo, dove solo la scena finale, la sola ambientata all’interno del GF (poco importa se si tratti di sogno o realtà) è paradossalmente l’unica autentica, priva di simulazioni e artefatti. Il pescivendolo è un Pinocchio televisivo che non ha aspettato altro che diventare un bambino vero (laddove "vero" ha perso il suo significato originario per diventare sinonimo di "pubblico").
Zoom out finale (il film, specularmente, partiva con uno zoom in). E ora chi sta guardando?
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