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La domanda di base di tutto questo servizio, “Orfani di realtà”, rimane una: chi guarda chi o cosa? Sembra tornare a disvelarsi in vortici concentrici il mito del guardare altrove scoprendo nell’altro se stessi. L’atto di guardarci non è poi così diverso da quello descritto nel capolavoro di Brackhage: ci si guarda dentro attraverso una radiografia (“La guerra è dichiarata”), un’autopsia (“Cera una volta in Anatolia”) o una sfida al corpo (“Hunger”). Ma possiamo rifletterci anche nel caos del mondo esterno, ritrovarci visti e perseguitati come in un panopticon (“Reality”), ricercare lo sguardo dei coccodrilli albini di una centrale nucleare (“Cave of forgotten dreams”) o di una famiglia di scimmie (“Holy Motors”) per poi riconoscerci come uomini. Potremmo andare avanti così per una vita: possiamo assistere alle crisi, alle convulsioni e alle insurrezioni del mondo oltre il finestrino dall’interno di un cyberspazio non poi così protetto (“Cosmopolis”).
Questo sguardo è declinato in maniera diversa in “Prometheus”, blockbuster solo in apparenza, che si serve di tutti i codici del cinema americano più basso (dialoghi, battute approssimative e diversi personaggi che sembrano più tipi che persone reali) per portare avanti una riflessione teorica tutt’altro che banale.
Partiamo dall’immaginario resuscitato di “Prometheus”, film sottovaluto e boicottato dai più, che rappresenta il ritorno di Ridley Scott alle atmosfere che lo avevano reso celebre, dopo anni di appannaggio e di scelte piuttosto opinabili. Per chi scrive non si tratta assolutamente di un film perfetto, ma è bene specificare che “Prometheus” e i suoi motivi di interesse non si trovano nei personaggi nè dei dialoghi, né nelle ingenuità (più o meno volute) di sceneggiatura. Un film come questo dev’essere difeso prima di tutto per la capacità di Gigerizzare la visione. Ogni cosa, dalle sedie ai tavoli a qualsiasi elemento decorativo, fa parte di un percorso teorico, di un inabissamento nei meandri oscuri della tecnologia. Ma oltre il livello visivo c’è un discorso non banale sul sogno come regno (im)possibile di salvezza. Nel collasso di un mondo dove ogni certezza è crollata l’umanità preferisce addormentarsi, sperando di poter trovare nel sonno (oltre il sonno) la ragione di ogni sofferenza, l’alfa e l’omega della vita. Ma si tratta di un sonno indotto dove ogni funzione cerebrale/decisionale è trasferita all’interno di un androide chiamato David (Michael Fassbender, ineccepibile come sempre).
La splendida, prima parte del film (indubbiamente la migliore) racconta l’umanizzazione della macchina: l’emulazione della voce e dei comportamenti umani, l’apprendimento della storia e della società grazie ai film del Novecento, l’attività ludico/sportiva all’interno dei corridoi asettici dell’astronave (e andare in bici e giocare a palla e così via). E infine David spia i sogni degli addormentati su uno schermo (nel futuro, lente d’ingrandimento sul presente, tutto è schermo). E quando i dormienti si risveglieranno alla ricerca di quelle risposte tanto anelate dalla storia dell’umanità avverrà la tragedia: ancora una volta il sonno della ragione genererà mostri.
…ed eccoli abbagliati e pregni di speranza e di attesa precipitare in un mondo oscuro, ospitare nuove forme di vita all’interno del proprio grembo: niente più esiste di per sè, la carne è vittima di una costante, inevitabile mutazione. Ora e per sempre mutanti in eterna trasformazione. Espellere i mostri sottocutanei, come se si trattasse di veri e propri demoni, ormai è vano: la scena del cesareo, in tutta la sua inquietante, Alienante perdita, è ancora una volta un inane tentativo di essere, di bloccare il flusso vitale, continuo della vita in subbuglio.
“Alien” fu uno shock. “Prometheus” non poteva shockare, non poteva reiterare lo spavento e il senso raccapricciante di un corpo che ne ospita un altro. Poteva fare una sola cosa: oggettivare e dunque teorizzare quello shock, e dunque, deludere necessariamente (e genialmente) le aspettative.
Ormai, in un mondo dove l’azione è morta, siamo nel secolo della teoria.
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