E’ bene precisare che questo servizio che sto compilando ormai da diverso tempo è intitolato “Orfani di realtà” proprio perché va a rintracciare tutti quei germi nefasti, quei virus e quegli intrusi che hanno oltraggiato le nostre case e i nostri mondi obbligandoci a convivere all’interno di geografie chiuse. La costante cinematografica del 2012 è dunque quella dell’ospite sgradito in grado di ribaltare il mondo. Che quest’ospite sia un crack finanziario o un’imperfezione anatomica (Cosmopolis), un essere raccapricciante che abita il nostro corpo (Prometheus) o una visione profetica e nefasta (Take Shelter) poco importa.
Entra proprio qui, con voce pacata ma sguardo crudele ed acuto, Michael Haneke che ha costruito intorno al tema dell’intrusione la cifra stilistica di un’intera carriera. In fondo non ha fatto altro che manipolare, osservare, studiare quest’ossessione costante di un’intromissione più o meno latente: l’ingresso del male, come ospite inatteso, all’interno di un ordine prestabilito. Filo rosso che unisce tutta la filmografia Hanekiana, da “Benny’s video” a “Caché”, dove la visione diventa (ri)visione, dove la realtà è fatta di pixel e non sai mai chi o cosa ti stia osservando (forse proprio tu).
Si tratta della reiterazione perenne di un gesto filmico crudele ed essenziale che rintraccia quest’oscura presenza in gesti o fatti o espressioni più o meni visibili (come le eclatanti esplosioni di violenza in “Funny games” o, al contrario, come l’inquieta, sobria, anomala luccicanza negli occhi dei bambini de “Il nastro bianco”).
Solo a una lettura superficiale “Amour” non si inserirebbe all’interno di questo discorso. Questa volta la presenza malefica che si cela e si svela all’interno dell’individuo non è più una luccicanza, ma è, al contrario, la privazione di una qualsiasi luce dagli occhi. Non esistono più sguardi intenzionali e identitari ma si realizza, estroflettendosi, la minaccia più oscura: che lo sguardo diventi vuoto ed opaco, che le luci si spengano e che l’uomo, la memoria, la volontà entrino in un perverso corto-circuito di quotidiano, perenne stanby. Ecco realizzarsi l’incubo della morte della coscienza sottoforma di malattia, ospite cieco e spietato che invade le nostre solide case, che sconvolge gli equilibri e ci porta incontro alla morte.
L'istante sacro di questo film coincide con lo sguardo spento e negato di Emanuelle Riva, terrificante epigrafe della visione e dello scambio. Gli occhi della donna sono una porta invalicabile che porta ogni ipotesi di riconoscimento a un osceno grado zero. “Amour” non è che il racconto di questo svuotamento, con tutti i ritorni improvvisi di coscienza e di luce, destinati però a soccombere nel vuoto della memoria.
In una delle prime inquadrature del film Haneke allarga il campo a tutti noi, con un piano fisso sospeso e lapidario, straniante per la sua ambigua e presunta oggettività. Ci mostra la platea di un teatro, specchio di ogni altra platea. I personaggi che impareremo a conoscere sono due anziani poco riconoscibili in mezzo alle altre persone, come a dire che l’intruso si muove già tra di noi.
Ma di soli intrusi è composto un racconto che ruota intorno ai concetti di violazione ed intromissione. Programmaticamente il film si apre con la polizia che fa incursione all’interno dell’appartamento dei due anziani e vi ritrova la Riva morta (prima violazione). Più avanti assistiamo a un sogno di Trintignant dove l’intruso si presenta come ladro nella notte che invade gli spazi e la tranquillità altrui (seconda violazione). Poi, ancora, la figlia (Isabelle Huppert) che non comprende il comportamento del padre e vuole portare la donna in un ospedale (terza violazione). E quindi passiamo alla badante che infrange continuamente la dignità del corpo nudo e abbandonato della paziente (quarta violazione). Troppo forte, troppo intensa, troppo invasiva perfino l'opera per organo di Bach che, difatti, viene bruscamente interrotta (quinta violazione). E, ovviamente, quello strano piccione che entra e vaga per l'appartamento (sesta violazione). Infine c'è un'ironica, settima violazione: la macchina da presa, il cinema, l'atto stesso del filmare.
Ma Haneke, figlio di Bresson, conosce bene la distanza, sa fotografare dei piani lunghi e fermi, privi di intepretazione e di aggettivi tecnici, di movimenti di macchina e di ipotesi, seppur lontane, di ruffiano sentimentalismo. Guarda invece con sobrio, rigoroso pudore, perfino nei momenti più necessari ed osceni, filmati senza rispariamire nulla, sempre attento a non sottrarli alla loro ovvia verità.
"Amour" è quindi il racconto di un'identità violata, di un amore straziante che non conosce confini, della sofferenza che si prova vedendo appassire la persona amata. Il personaggio di Trintignant si prende cura della moglie, vivendo recluso con lei nell’ennesimo spazio chiuso, casa della memoria e del passato, combattendo ogni possibile invasione. Ma anche quella casa così grande, così borghese e così bella, è destinata a comprimersi, costringendo i personaggi ad avere sempre meno spazio, sempre meno aria, fino a ritrovarsi come gli ultimi uomini del mondo, soli entro le pareti della camera da letto.
Rimangono i piccoli gesti, come quelli dei corpi che si supportano toccandosi, ora sfiorandosi, agitati innamorati mai desti tra schiaffi e sorrisi.
E' dunque inevitabile il gesto di rottura come terribile promessa di vero amore: la morte.
Solo allora il personaggio di Trintignant, immerso tra le atmosfere del sogno, può tornare a vedere Emanuelle Riva, viva e radiosa, e abbandonare con lei l'appartamento per poter uscire fuori e dissolversi nel tenero gioco dell'amore.