Nato nel 1974, Roberto Recchioni è attivo nell’ambito fumettistico professionale dal 1993, esordendo sulla serie “Dark Side” (da lui creata) edita da BDPress. Ha in seguito collaborato con Star Shop, Comic Art, Rizzoli, Magic Press, Eura Editoriale, ed è inoltre tra i soci fondatori della Casa editrice Factory. Per il mercato estero ha pubblicato un paio di storie brevi sulla celebre rivista americana “Heavy Metal”. È stato anche redattore delle riviste “X-Files”, “CineAttack!”, “Fiction” e “Pc Zeta”, curando inoltre “Resident Evil Magazine”, “Cliffhanger” e “Wildstorm”.
Se Tex ha rappresentato l’approdo tra le pagine del più iconico personaggio italiano (assieme a Diabolik che già conoscevi), se l’impegno assunto per Dylan Dog di coordinatore redazionale è forse il più impegnativo e delicato della tua carriera, Orfani appare come il progetto più ambizioso e maturo di Recchioni autore. Che speranze riponi nella serie sia dal punto di vista dell’accoglienza (il tuo lato “attention whore”) sia dal punto di vista tuo personale e professionale?
Non so bene se è il mio progetto più maturo. Di sicuro, è il più strutturato e ambizioso, sia in termini commerciali, sia in termini narrativi.
E’ pure la prosecuzione di un tipo di approccio che è partito con John Doe che, con Orfani, trova il suo pieno sviluppo. Non è un caso che il team artistico che compone il primo numero sia lo stesso identico del primo John Doe (Recchioni, Mammucari, Carnevale).
Non mi aspetto nulla. Quello che posso fare è solamente sperare. Di aver fatto un bel fumetto. Che questo bel fumetto intercetti la fetta di pubblico più larga possibile. Che questo dia il via a un nuovo modo di concepire i prodotti popolari.
Il progetto nasce a quattro mani tra te ed Emiliano Mammucari. Si è trattato di dividere i compiti tra storia e aspetto grafico della serie, o il rapporto è stato più stretto e simbiotico?
Molto più simbiotico. Io ed Emiliano siamo creatori alla pari. Ogni aspetto della serie è stato valutato da entrambi. E questo vale sia per la mia influenza sul disegno e il colore, sia per l’influenza di Emiliano su soggetti e sceneggiature.
Schizzi preparatori di Emiliano Mammucari
Si parla di due o tre stagioni per Orfani allo stato attuale del progetto. Quanto ti è tornata utile l’esperienza di John Doe, non priva di ostacoli nella gestione di una struttura simile derivata dai serial TV? Che errori hai imparato a non ripetere, se credi ce ne siano stati anche da parte tua e di Lorenzo Bartoli, sotto questo aspetto?
Orfani, rispetto a John Doe, ha dalla sua il vantaggio di avere alle spalle una casa editrice che ha investito molto forte sulla serie e che ci ha lasciato tutto il tempo di cui avevamo bisogno per realizzarla. La Sergio Bonelli ha creduto e crede fortemente nel progetto e questo ha reso tutto più facile. John Doe era una serie sempre in guerra con il budget e il tempo a disposizione e questo l’ha condizionata (certe volte anche per il bene, visto che lavorare in certe condizioni ci ha costretti a essere istintivi e coraggiosi), per Orfani, questo problema non si è mai posto.
Semmai, è stato vero il contrario: siamo diventati sempre più esigenti, a tratti, anche ossessivi.
La prima stagione ha una struttura definita con due linee temporali ognuna protagonista di metà albo mensile. Quanto è stato complesso il lavoro a livello di scrittura, quanto materiale di supporto (guide temporali, mappe logiche) avete creato?
Enormemente complesso, ma me ne sono reso conto solo in corso d’opera. All’inizio era un’idea divertente. Poi lo schema mentale che mi ero fatto è diventata una specie di mappa della metropolitana di Londra e ho dovuto fermarmi e valutare ogni singola passaggio passato, prima di scrivere la conclusione. Ma è stato un lavoro quasi tutto nella mai testa. Non ho mai scritto nulla. Quindi, almeno sotto questo punto di vista, non mostreremo nulla al lettore. In compenso, abbiamo tonnellate di studi di preproduzione per quello che riguarda l’aspetto visivo che, un giorno, renderemo pubblici.
Avete pensato ai vostri personaggi con un inizio e una fine compiuti, per quanto potenzialmente distanti nel tempo, o questo è un pensiero rimandato a quando avrete esaurito il potenziale della storia?
Quasi tutti i miei personaggi, quando nascono, contengono i semi della loro fine. Gli Orfani non fanno differenza.
Per Bonelli Editore è un approccio in gran parte nuovo. Solo Nathan Never si è avvicinato al concetto. Come si sposa questo con la tradizione dell’editore milanese, con la cultura del singolo numero liberamente leggibile dal nuovo lettore, con le serie legate a singoli personaggi e non a un gruppo?
Si sposa poco. E’ davvero un approccio inedito rispetto alla tradizione Bonelli.
Quando hai pensato all’aspetto della rottura delle tradizioni nel progettare Orfani? Era in parte un obiettivo?
Non proprio. E’ capitato. Sono stato molto bonelliano nella forma e nel linguaggio (gabbia molto rigida, grande attenzione riservata alla leggibilità) e per nulla bonelliano nei contenuti.
Naturalmente non possiamo non parlare del colore, altro elemento innovativo per una serie Bonelli e per gran parte del fumetto italiano d’avventura. Un elemento che ha richiesto un impegno importante per non relegarlo a semplice ornamento ma come elemento narrativo. Gli Orfani potrebbe vivere senza colore, e cosa perderebbe?
No. Non potrebbe. Il colore non è solo orpello in questa serie ma è tono narrativo. Fa parte della storia al pari delle parole e del disegno.
Schizzi preparatori di Emiliano Mammucari
Il rapporto con i coloristi quanto è stato importante, quando è quantificabile il loro contributo? Questo ha portato a modifiche nella storia, nell’ambientazione o comunque al di là dell’aspetto visivo?
Fondamentale. E non sempre facile. Perché abbiamo lavorato tanto con professionisti quando con esordienti (di grandissimo talento però) ed è stato difficile riuscire a comunicare le necessità della nostra visione e, nello stesso tempo, rispettare la loro sensibilità. Ci siamo riusciti? Nella maggior parte dei casi, ma non sempre. Qualche volta abbiamo fallito e siamo stati troppo pressanti. Il risultato complessivo però, ci riempie di orgoglio e riempie di orgoglio la maggior parte delle persone che a questa serie hanno collaborato. Non è poco.
Dagli elementi emersi, Orfani sembra pescare abbondantemente dall’immaginario fantascientifico classico, ma rispetto ad altre tue opere mi sembra più come omaggio e ausilio per l’immedesimazione del lettore, che può evitare paginate di spiegazioni pseudo tecniche, che come forma di citazioni a uso postmodernistico.
Il lettore vede in un’opera quello che vuol vedere e che riconosce in base alla sua cultura. Nelle armature degli orfani ci saranno quelli che ci vedono Halo, quelli che ci vedono Captain Power e quelli che ci vedono Fanteria dello Spazio di Heinlein. E questo varrà per ogni elemento della serie. In realtà, io e Emiliano siamo partiti da una base molto semplice, stereotipata ed archetipica, per poi andare a scardinarla numero dopo numero. Molti crederanno di aver capito tutto dopo la lettura del primo numero ma, ve lo assicuro, non sarà così.
Si pone l’accento sul tema fantascientifico, ma sospetto che Orfani sia in gran parte una storia di formazione e a sfondo bellico. Ci parli di queste due tematiche?
In realtà, Orfani è più vicino al teatro che a un blockbuster americano. Ha un universo fortemente stilizzato e racconta un dramma shakesperiano. La fantascienza è solo il mezzo attraverso cui abbiamo potuto raccontare quello che ci stava a cuore davvero.
L’infanzia, i riti di passaggio, la natura della guerra, il cuore degli uomini e delle donne e cose così.
Stelle, armature e mostri, sono solo paraventi.
Si ringrazia Roberto per la disponibilità.
Intervista condotta via mail a luglio 2013
Di Orfani su Lo Spazio Bianco:
Orfani: novità, riflessioni, tavole inedite e quattro chiacchiere con Roberto Recchioni
Il colore venuto dallo spazio: intervista ai coloristi di Orfani
I character poster di Orfani
La copertina del primo numero di Orfani
Il trailer ufficiale di “Orfani”
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