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Organizzarsi non basta

Creato il 28 settembre 2015 da Nicolamisani

Qualche tempo fa andai alla conferenza dell’amministratore delegato di una casa italiana della moda, piuttosto nota. Un uomo alto, atletico, con i capelli rasati, che nell’occasione indossava un abito chiaro di taglio giovanile. Gli stava benissimo. Gli diedi ad occhio meno di cinquant’anni, per scoprire poi che li aveva superati da un pezzo. Ci raccontò che verso la fine dell’anno scorso si era trovato a cercare un nuovo direttore creativo per l’azienda. Quello precedente aveva lasciato la carica all’improvviso, a quanto si sussurra non proprio di sua volontà, non prima però di disegnare le collezioni per le sfilate di inizio 2015. Perciò l’amministratore delegato aveva avuto un po’ di tempo per riflettere sul sostituto.

I cacciatori di teste avevano steso una lista di candidati. Tutti nomi celebri, che appaiono ogni giorno su Women’s Wear Daily o Business of Fashion. L’amministratore delegato aveva cominciato a intervistarli. Nel frattempo, si era preoccupato di parlare ai dipendenti migliori dell’azienda, spaventati dal terremoto in corso, per evitare che salpassero verso lidi più sicuri. Uno di loro, l’assistente del precedente direttore creativo, aveva approfittato del colloquio con l’amministratore delegato per presentargli le sue idee sulla strada stilistica che, a suo avviso, l’azienda avrebbe dovuto prendere. L’amministratore delegato ne era stato colpito. “Mi piacque perché era una persona normale”, ci disse, lasciando che traessimo le nostre deduzioni sugli altri stilisti che aveva incontrato nella sua carriera.

Il Natale ormai si avvicinava. All’inizio della conferenza, l’amministratore delegato ci aveva spiegato che osservava la regola di non lavorare mai alla sera e nei fine settimana. Era una questione di work-life balance, a vantaggio anche del work, perché per essere lucido un dirigente ha bisogno di staccare e rinfrescare la mente. Inoltre, aveva proseguito, se uno lavora fuori orario significa che non è organizzato. Se lo fosse, riuscirebbe a sbrigare tutto il lavoro mentre è in ufficio.

L’amministratore delegato aveva pertanto sospeso la caccia al nuovo stilista ed era partito per le vacanze qualche giorno prima del 25 dicembre.

Il giorno dopo l’Epifania era rientrato in sede e aveva telefonato all’assistente incontrato a dicembre. Gli aveva detto di essersi convinto che era sciocco mandare in passerella le collezioni disegnate dal vecchio direttore creativo. Non sarebbero state credibili. Avrebbero prolungato il periodo di incertezza. Il rinnovamento stilistico doveva essere più veloce. Disse all’assistente: “Sei in grado di disegnare una nuova collezione uomo entro lunedì prossimo?”. È un tipo di lavoro che in genere richiede settimane. La telefonata avveniva di mercoledì. Parliamo quindi di cinque giorni. Un’altra settimana sarebbe poi servita per produrre e provare i capi per le sfilate.

L’assistente disse: “Sì”.

Il 19 gennaio 2015, modelli efebici, e anche qualche modella spigolosa, indossarono la collezione uomo sulle passerelle di Milano. La stampa internazionale fu stupita dalla freschezza delle idee, all’insegna dell’androgino, e ancor più di sapere che la collezione era stata disegnata da un assistente sconosciuto. Qualche giornalista osservò che, qui e là, sembrava messa insieme in fretta e furia. Ma nell’insieme i giudizi furono favorevoli. Due giorni dopo la nota casa italiana della moda annunciò che l’ex assistente era il nuovo direttore creativo.

*     *     *

Non sono sicuro che l’amministratore delegato vedesse l’incoerenza fra la sua regola — non lavorare mai fuori dagli orari regolari — e l’avere affidato a qualcuno una missione impossibile da completare senza lavorare H24, in cinque giorni che includevano un sabato e una domenica. Mi rendo conto che l’assistente, innalzato poi a una carica inattesa e invidiata, forse ricorderà quei giorni come i più esaltanti della sua vita.

Tuttavia, questa storia illustra un aspetto delicato del work-life balance. Spesso la gente lavora nelle ore in cui dovrebbe trovarsi a cena con gli amici, o al parco giochi con i bambini, o a casa a leggere un libro, non perché non è organizzata, ma perché non sono organizzati gli altri: i capi, i colleghi, i clienti, che li inchiodano troppo tardi con richieste urgenti che un essere umano non può esaudire con il solo orario d’ufficio. Nel caso, l’amministratore delegato si era concesso due settimane di vacanze prima di decidere che voleva una nuova collezione uomo, solo cinque giorni prima della scadenza ultima per disegnarla.

Nel mio piccolo, mi capita di frequente che gli studenti mi chiedano di lavorare fuori orario. Li invito a mandarmi i capitoli della loro tesi “entro giovedì mattina” e loro li mandano venerdì sera, all’ultimo momento utile prima di lanciarsi negli spassi del fine settimana, che evidentemente io invece dovrei trascorrere leggendo la loro produzione scientifica. Oppure mi scrivono una mail il sabato o la domenica, con un “URGENTE” nell’oggetto, perché hanno scoperto una scadenza universitaria per il lunedì successivo, che dovrebbero conoscere da mesi, e necessitano di qualche mio intervento. Ho imparato a non rispondere mai a queste mail. Sto pensando anche di affiggere sulla porta del mio ufficio un cartello con un haiku che ho letto su internet:

Richiesta urgente
di chi si era attardato
mi scoccia assai

Ma sia l’amministratore delegato, sia io (limitatamente ai miei studenti) abbiamo il potere incontrastabile di sparire. Se il work-life balance del lavoratore comune va a pezzi è perché riceve mail e telefonate cui invece non può sottrarsi, di capi e altri ritardatari che è pericoloso lasciare insoddisfatti. Oppure gli inviano le informazioni che gli servono in ritardo grave sulla tabella di marcia, e cade nella tentazione di sfruttare le sere e i fine settimana per recuperare il terreno perduto.

Le causa ultima di questa sventura è ovviamente internet. A prima vista, può sembrare che il problema sia che internet ci permette di lavorare a distanza. Questo è un errore, perché anche vent’anni fa uno poteva lavorare alla sera o nei fine settimana portandosi a casa le carte. Il problema vero è che internet permette agli altri di fare lavorare noi da casa, anche se abbandoniamo le nostre carte di lavoro nel loro luogo naturale, che è il tavolo dell’ufficio. Un capo sa di poterci chiedere una prestazione in ogni ora della settimana perché — con le mail, Dropbox o altri servizi cloud — possiamo sempre accedere ai dati e ai documenti necessari per il lavoro.

Saranno proprio i meglio organizzati a lavorare più spesso fuori orario. Con le loro informazioni complete, ben in ordine, collocate online, diventeranno il Wolf dell’ufficio, colui o colei che risolve i problemi, l’operatore di emergenza che i disorganizzati chiamano per sbrigare il lavoro urgente che nasce dai loro errori e dalla loro improvvisazione.

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L’amministratore delegato non aveva sviluppato da sé il concetto che chi lavora fuori orario è disorganizzato. Nei post su internet sul work-life balance — che come numero sfidano gli emendamenti di Calderoli — il consiglio più comune è imparare a sfruttare bene il tempo in ufficio. “Eliminate le riunioni” (come se se uno potesse scansare i colleghi che vogliono incontrarlo), “evitate le interruzioni” (come se uno potesse negarsi al telefono quando lo chiama un cliente), “stabilite le vostre priorità” (come se uno non avesse un capo a dargliele). Il concetto sottostante è che se uno non completa il lavoro in ufficio è a causa delle sue cattive abitudini. Questa letteratura di self-help, oltre a proporre sempre le stesse soluzioni, note probabilmente già agli scrivani Assiro-Babilonesi, aggiunge al danno di chi deve lavorare fuori orario la beffa di sentirsi dire che è colpa sua.

Naturalmente, a volte, è davvero colpa sua. Mi vengono in mente ancora i miei studenti. Per esempio quelli che devono consegnare la tesi la prima settimana di settembre e, avendo concordato con me l’argomento e i metodi mesi prima, si accorgono a metà agosto che non hanno ancora scritto nulla. Pagano questa disorganizzazione loro mettendosi ansiosamente a scrivere mentre sono al mare. Tutti gli anni, alcuni mi mandano i capitoli il giorno esatto di Ferragosto. Forse immaginano che il fatto che lavorino in quel giorno mi commuova e io mi metta subito a leggere il loro materiale. Scrivono “la prego di trasmettermi presto le sue indicazioni perché mi devo laureare a settembre”.

Al contrario, quel giorno evito di leggerlo. A dire il vero, lo evito per una decina di giorni. Non è solo per difendere il mio work-life balance. È anche una questione di onore. Non voglio che un estraneo, vedendomi lavorare in vacanza, prendendo appunti su strani documenti pieni di numeri e tabelle, quando dovrei essere in spiaggia o ad affrontare un percorso di montagna, pensi che sia disorganizzato.


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