Un bel giorno del ’21 John Dos Passos, venticinquenne, prese un traghetto che lo portò da Boston a Ostenda. Da lì un treno che passando per Venezia e i Balcani lo scaricò a Istanbul. Da Istanbul un traghetto sul Mar Nero verso Batumi, la Georgia. Dalla Georgia scese in treno attraverso l’Armenia e l’Iran fino a Baghdad. Da Baghdad prese un cammello che in trentasette lunghi e indimenticabili giorni lo condusse a Damasco. Tutto ciò lo racconta lui stesso in Orient Express, tradotto in italiano da Donzelli.
Dos Passos batte quelle terre a Prima Guerra Mondiale da poco conclusasi. A Istanbul i “terroristi” armeni del progetto Nemesis gambizzano diplomatici azeri; i soldati russi, italiani e inglesi sfoggiano le loro divise nei giardini dell’odierna piazza Taksim, all’epoca qualcosa di simile alle Folies Bergéres con numeri di cabaret multietnici; nelle moschee i musulmani pregano per la perduta Adrianopoli/Edirne e per le truppe in Anatolia, mentre nelle chiese si prega per i russi e per i greci, che liberino Smirne. Dos Passos: «Un giorno da qualche parte si potrebbe arrivare al cuore, alla chiave per decifrare questo intricato arabesco distrattamente scarabocchiato su un fondo di sofferenza assoluta». I greci spingono affinchè il turista americano impari il greco, i turchi affinchè impari il turco. «”Ma i turchi non hanno studiato i classici greci. La Turchia non esiste. Glielo assicuro, signore, è solo un fatto di brigantaggio”» e, mentre i turchi sono oramai i kemalisti e «stanno tutti ad Ankara con Mustafa Kemal», la soluzione migliore per Istanbul sembrerebbe quella offerta da un passante: «Secondo me, bisognerebbe dichiarare la città neutrale e offrirla alla Svizzera».
Dopodichè, la Georgia, Batumi e Tiblisi, il Caucaso “rosso”. La rivoluzione bolscevica è giunta come una tempesta a spazzare via il concetto di proprietà privata, il possesso delle Cose: «Quanto alle misere vestigia di ciò che la gente insiste a chiamare civiltà, queste giacevano ammucchiate, ossidate e polverose nelle vetrine dei rigattieri». Una riflessione che anticipa in qualche modo Georges Perec. Dos Passos, da buon anarchico, sembra avvertire la necessità di un’alternativa ai due “blocchi politici”-”stili di vita” che ossessioneranno la nostra civiltà per buona parte del ventesimo secolo: «da bipede eretto e nudo, l’uomo è divenuto una sorta di paguro incapace di vivere senza una spessa conchiglia conglomerato di smoking, limousine, caffettiere, buoni dei negozi di sigari, frullini per uova, macchine per cucire, così che più spessa è la conchiglia, più fragile è la sua autonomia, più è considerato un grande uomo e un milionario. Questo vento ha ripulito la Russia, tanto che le Cose ritenute divine fino a qualche anno fa sono adesso robaccia marcescente in ogni angolo; migliaia di vite sacrificate, una generazione livellata come ghiaia sotto un rullo compressore per spezzare la tirannia delle Cose.»
Dopo la Georgia si va giù verso un’Armenia che sembra l’Africa dei nostri giorni. A Yerevan: «”I bambini cosa hanno?” “Niente, stanno morendo”». Un paese trasformato in terreno di guerra, malauguratamente trovatosi in mezzo fra due imperi in rovina. «L’Armenia. Visione fugace di una mappa di guerra con le bandierine russe, turche, britanniche…Le mosche ronzano “Tagliate ‘sto tacchino, tagliatelo fino al cuore!” I pezzi chiamateli armeni, georgiani, assiri, turchi, curdi». La penna di Dos Passos è una delle più sincere, disincantate, meno roboanti ed autocompiaciute fra quelle che siano venute a compiere il tour d’Oriente. Commuove perché non si lascia commuovere dalla straziante realtà che ha sotto ai suoi occhi, e pertanto sa restituircela con più autenticità.
In Iran però, il fascino indolente e sensuale della vecchia Persia è irresistibile. Fra Tabriz, Teheran e Kermanshah, le giornate scorrono lente e innumerabili, oziose di nargilè e conversazioni con tale Sayyid, presunto diplomatico-saggio-taumaturgo dal personalissimo francese. In Iran si fa vivo il rischio che la penna dell’autore venga contaminata da quello strano virus intellettuale chiamato orientalismo. Ma l’autore ha stile, non c’è che dire. Sentite qua: «Si aveva la sensazione che secoli e secoli di ben modulata indolenza si adagiassero come fini stoffe di seta sulla propria inquietudine». L’Islam è «davvero sinonimo di arrendevolezza» anche se ha i suoi vantaggi: «Con il nome di Allah come unico bagaglio si poteva viaggiare dalla Grande Muraglia cinese al Niger senza troppe preoccupazioni riguardo al cibo e al denaro».
E dopo l’Iran, lungo la strada che gli eserciti di ogni epoca hanno battuto, si aprono le porte della Mesopotamia, Baghdad. Con un dubbio però. Avrà senso andarla a visitare dopo che inglesi e tedeschi l’hanno depredata mentre inseguivano il folle progetto della linea Berlino-Baghdad Bahnhof e ora la espongono nei musei delle loro capitali? Ma a Baghdad la storia sembra non aver bisogno di monumenti, risuona nell’aria: «è straordinario il modo in cui questo paese è intriso di Bibbia, in cui queste desolate pianure di fango e questi cumuli di macerie sono divorati e consumati dalle lingue oscene dei profeti ebrei.» Dopodiché, trentasette giorni e trentasette notti fra le fauci del gelido vento del deserto, a dorso di cammello assieme ad una carovana che porta bestiame a Damasco (che invidia!); la voglia di abbandonare l’America e tutto il resto per quei riposi in tenda, quei thè, quelle stelle così vicine da impigliarcisi.
L’ultimo capitolo del libro è un saggio-pamphlet su Blaise Cendrars, che del viaggio aveva fatto una ragione di scrittura primordiale. E la conclusione che Dos Passos riesce a tirare, assalito dalla moltitudine delle esistenze terrestri, dalla loro irriducibile pluralità, è questa: «Abbiamo bisogno dei figli di Omero per andare nel mondo e dare a questo gran baccano un ritmo che ci renda meno spaventati.»