In un periodo di particolari stravolgimenti politici, nel 1921, lo scrittore e giornalista americano John Dos Passos intraprese un viaggio complicato e affascinante: partito da Venezia con il celebre Orient Express, attraverso i Balcani e la Turchia volle raggiungere il Medio Oriente. Viaggiatore sin dall’infanzia, egli stesso disse di aver vissuto una “hotel childhood” e per tutta la sua vita continuò a curiosare oltre i confini americani appassionandosi di politica e diventando una delle figure più intriganti fra gli intellettuali americani del Novecento. Donzelli Editore ha pubblicato nel 2011 Orient Express, la raccolta di appunti e memorie del viaggio effettuato da Dos Passos in Medio Oriente.
Se la prima parte del libro sembra essere un puro reportage di viaggio ed un resoconto pragmatico dei momenti che hanno caratterizzato le varie giornate, man mano che il paesaggio si trasforma, lo stesso autore sembra subire una mutazione; più il viaggio diventa complicato e i disagi aumentano, più lo scrittore è consapevole dell’esperienza particolare che sta affrontando e l’emozione prima contenuta traspare dalle sue parole; una volta giunto a Costantinopoli, decide di attraversare il Caucaso alla volta dell’Iran, per poi proseguire in carovana fino a Damasco. Questi ultimi giorni di viaggio che lo separano da Damasco sono descritti con cadenza giornaliera, ci sono giornate davvero difficili, anche pericolose, ma man mano che si procede con la lettura si comprende quanto Dos Passos stia godendo della vita nel deserto e sia sempre più consapevole di quale meraviglioso viaggio stia compiendo; fra gli appunti del diciassettesimo giorno leggiamo: «Accampati circa a mezzogiorno nei pressi di una pozza d’acqua nel letto arido di uno sheib […]. Caldo pomeriggio di sole […]. Andato a passeggiare dall’altra parte di una collina e mi sono sdraiato su una larga pietra sotto il sole a leggere Marziale. Mai stato più felice di così. La sera mi sono seduto accanto a Hassoon intorno al falò di Jassem per un bel po’ […]. Bevuto infinite tazzine di caffè, il caffè nero e amaro del deserto, filtrato tre volte, aromatizzato con un’erba che lo rende amaro come il chinino, irresistibile come un crescendo orchestrale di Wagner, lenitivo per il corpo martoriato dal vento come il sonno del mattino. […] Più tardi, sdraiato senza dormire, contemplo il chiaro di luna ascoltando i cammelli che ruminano e il live gorgoglio del narghilè di Fahad. Se avessi un briciolo di buon senso, mi fermerei per sempre con Nuwwaf a El Garrà. Insomma poco importa se ci vorranno mille anni per arrivare a Damasco». Al trentaduesimo giorno scrive: «Ancora mezza giornata di viaggio. I cammelli sono deboli perché non mangiano da giorni. Potrebbero metterci mille anni per arrivare a Damasco. Non mi importa. Non mi ricapiterà più di sedermi a questi falò profumati, in compagnia di gente così meravigliosa. Cristo, mi sento bene, barba lunga, pieno di energia, libero da tutta la bile, tutte le grinze della mente spianate da questo deserto di sassi freddo e purpureo». La catarsi del viaggio nel deserto è compiuta e la lettura di questo libro è un vero crescendo: dal reportage onesto e quasi distaccato giungiamo ad una prosa dall’intensa forza evocatrice; è quasi poesia.